miércoles, 9 de noviembre de 2016

Un suelto de El Bolchevique



Ispirati per tempo dall'articolo di Mauro su “Repubblica”, gli anticomunisti uniti per calunniare il socialismo e Stalin
Il Giornale” dei Berlusconi e “Il Manifesto” trotzkista celebrano la controrivoluzione ungherese
Il Fatto quotidiano” di Travaglio si accoda con un articolo di D'Esposito e un'intervista a Occhetto
Al coro anticomunista si è aggiunta Rifondazione trotzkista di Ferrero

Dopo l'articolo dell'ex direttore de La Repubblica, Ezio Mauro, che aveva per tempo preparato loro il terreno, altri giornali borghesi sono scesi in campo per celebrare la controrivoluzione ungherese e calunniare Stalin e il socialismo, cogliendo l'occasione del 60° anniversario della manifestazione studentesca di Budapest del 23 ottobre 1956, che diede il via a quel tentativo di colpo di Stato anticomunista e antisovietico. Ed è significativo che in questa celebrazione, in compagnia del quotidiano di De Benedetti e Scalfari, organo ufficioso di Renzi e leader dei media anticomunisti, si ritrovino giornali tanto della destra, come il berlusconiano Il Giornale, quanto della “sinistra” borghese come Il Fatto Quotidiano, spalla a spalla con i trotzkisti de Il Manifesto e di Rifondazione trotzkista di Paolo Ferrero.
Il Manifesto segue addirittura pedissequamente l'imbeccata del liberale anticomunista Mauro, con una sorta di articolo-fotocopia della sua recensione, pubblicata su La Repubblica del 19 settembre, alla biografia di Sandor Kopacsi, l'ex questore di Budapest che passò dalla parte dei controrivoluzionari e collaborò col governo del rinnegato Imre Nagy. L'unica differenza, in questo articolo firmato da Valentina Parisi, è che rispetto a quello di Mauro si insiste ancor di più sulle “origini proletarie” e sul passato di combattente antifascista e comunista dell'autore, che si rifiutò di far sparare sui rivoltosi e nei giorni successivi finì per passare dalla loro parte. Questo nel chiaro quanto inutile tentativo di dimostrare che la controrivoluzione ungherese sarebbe stata un'insurrezione popolare, nazionale e perfino di “sinistra”, condotta da operai e masse popolari e guidata da “comunisti in buona fede” come Nagy e lo stesso Kopacsi, contro il dispotismo staliniano e la dominazione dell'Unione sovietica, per conquistare la democrazia e l'indipendenza nazionale.

La tesi trotzkista della “rivolta democratica e riformista”

Lungi dall'aver istigato di persona la folla che il 23 ottobre nella piazza antistante il Parlamento aveva scandito per ore il suo nome, Nagy accettò – più che altro per senso di responsabilità – il gravoso compito di traghettare il proprio paese fuori dal Patto di Varsavia e verso quelle riforme democratiche cui un decennio dopo in Cecoslovacchia sarebbe stata assegnata l'etichetta di 'socialismo dal volto umano'”, scrive infatti Parisi sposando la tesi della “rivoluzione democratica e riformista”, e aggiungendo che si trattò di “una speranza infranta di lì a breve contro i cingoli dei carri armati T-34 inviati da Mosca a sedare la rivolta”.
É significativo però che lei stessa ammetta tra le righe che l'obiettivo per cui era nato il governo di Nagy, “proclamato a furor di popolo primo ministro della Repubblica popolare di Ungheria”, fosse quello di far uscire il paese dal campo socialista per farlo entrare in quello dell'imperialismo: un programma che nel contesto dell'allora “guerra fredda”, con la minaccia sempre incombente di una terza guerra mondiale nucleare, non poteva avere nulla di “democratico” e di “riformista”, ma rispondeva unicamente alla strategia imperialista di isolamento dell'URSS e di spaccatura del campo socialista. Del resto anche Mauro, che nel suo articolo aveva sostenuto la “buona fede comunista” dell'ex questore di Budapest, aveva finito poi per rivelare che era stato proprio lui a far fuggire e rifugiare nell'ambasciata americana il reazionario e fascista primate d'Ungheria, il cardinale Mindszensty.
Anche la trotzkista Luciana Castellina, che sullo stesso numero de Il Manifesto firma un articolo di rievocazione dei suoi ricordi di quei giorni e delle fratture che produssero nella FGCI e nel PCI, cerca di rivendere la controrivoluzione ungherese come un'insurrezione popolare provocata dal dispotismo stalinista ancora presente nei paesi dell'Est nonostante il recente XX Congresso del PCUS: “Io non partecipai alla protesta, pur con tutte le riserve sui regimi dell’est e sui giudizi minimizzanti che, pur senza censurare le informazioni, furono emessi dal PCI. Non lo feci non per non rompere la disciplina (che poi ruppi per Praga ), ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscev sembrava stesse cambiando; quanto accaduto a Budapest si presentava come un colpo di coda della vecchia guardia stalinista (e in gran parte lo fu, stando alle ricostruzioni degli stessi storici americani)”, conclude infatti la fondatrice storica del quotidiano trotzkista. Che subito dopo aggiunge con sollievo: “Un mese dopo il PCI operò una svolta decisiva con il suo VIII congresso”. Sottinteso: con la compiuta assimilazione della svolta antistalinista e riformista il PCI revisionista aveva superato anche le contraddizioni provocate poco prima dalla sua presa di posizione a favore dell'intervento sovietico.

Da Budapest alla Bolognina

Anche Il Fatto Quotidiano del 24 ottobre si è unito al coro anticomunista, dedicando due pagine all'anniversario, con un articolo di Fabrizio D'Esposito e un'intervista dello stesso all'ex segretario del PCI revisionista e fondatore del PDS neoliberale, il rinnegato Achille Occhetto, che all'epoca dei fatti d'Ungheria era un ventenne quadro della FGCI. Occhetto si vanta di essere stato già allora quel borghese di incallito animo liberale e riformista che avrebbe dimostrato di essere, decidendo dopo il crollo del muro di Berlino di liquidare di sua propria mano il PCI di cui era stato l'ultimo leader.
La mia crisi di coscienza fu totale”, racconta Occhetto, precisando però di non essere andato via dal PCI, pur identificandosi con le posizioni di Nenni e dei socialisti (categoricamente schierati con la controrivoluzione ungherese), ma di essere rimasto “in bilico”. Ma fa capire bene come la pensava descrivendo un episodio capitatogli quando la federazione di Milano fu assalita dai fascisti e lui era sulle gradinate rispondendo alle sassate “fianco a fianco con gli stalinisti”. “Mi rivolsi a loro insultandoli: se questi sassi arrivano è colpa vostra”, racconta Occhetto tutto orgoglioso del suo precoce antistalinismo, aggiungendo compiaciuto che “successivamente i dirigenti furono accusati per eccesso di stalinismo”.
Quindi anche il quotidiano di Marco Travaglio, tramite l'intervista a Occhetto e l'articolo di presentazione di D'Esposito, che parla dei “compagni polacchi antistalinisti” che ispirarono la manifestazione studentesca di Budapest, e definisce Nagy “leader ungherese di un socialismo riformabile e libero dall'abbraccio dell'Urss”, converge con Il Manifesto trotzkista nel cercare di accreditare la tesi di un'“insurrezione democratica” di ispirazione socialista e libertaria contrapposta ad un anacronistico e oppressivo comunismo staliniano.
Tesi questa sposata in pieno e teorizzata politicamente da Rifondazione trotzkista, che in un Ordine del giorno della Direzione nazionale approvato con un voto contrario e un'astensione, rende addirittura omaggio a “quei comunisti, come Imre Nagy e Gyorgy Lukacs, che tentarono di sviluppare un progetto socialista diverso dal modello che si era affermato durante il periodo staliniano”. Come cioè se la controrivoluzione ungherese fosse stata un tentativo di “via nazionale al socialismo”, stroncato, si dice per sottolineare il presunto paradosso, “dai carri armati dei paesi socialisti” per “porre fine a un governo guidato da comunisti”. Un tentativo – dice sempre il documento - che poco dopo, grazie anche alla “tragedia ungherese”, si sarebbe affermato invece in Italia con l'VIII Congresso del PCI, che “si caratterizzò per la sottolineatura del carattere democratico della via italiana al socialismo e per l'archiviazione dell'idea di uno Stato-guida e di un partito-guida del movimento comunista”.

Gli “eroi” de Il Giornale e lo spettro del comunismo 

Paradossalmente, per smascherare tutti questi imbroglioni e dire pane al pane e vino al vino, e cioè che quella ungherese fu una controrivoluzione anticomunista e antisovietica, ispirata e foraggiata dall'imperialismo e condotta dalla borghesia e dalle altre classi reazionarie spodestate per riprendere il potere, restaurare il capitalismo e portare l'Ungheria nel campo della Nato, c'è voluto Il Giornale di Sallusti, che alla celebrazione dei fatti del '56 ha dedicato un inserto di diverse pagine, con un illuminante articolo in cui si esalta un gruppo di pregiudicati per reati comuni usciti dalle carceri, che guidarono la rivolta armata nelle strade di Budapest e che oggi sono celebrati come “eroi” dal governo fascista di Orban: “Che cosa li animasse non è chiaro, forse una falsa voce sull'imminente arrivo di paracadutisti inglesi”, spiega l'articolo, gettando così in qualche modo luce su chi fossero in realtà gli insorti di Budapest e a quali forze internazionali facessero riferimento.
Le eroiche giornate di Budapest costituiscono ancora oggi un monito: se è vero infatti che il comunismo storico è finito è anche vero che l'utopia rivoluzionaria, come l'araba fenice, può sempre risorgere, sotto altre spoglie, dalle sue ceneri”, avverte il quotidiano della destra berlusconiana, che dopo le collane sul fascismo e sul nazismo, annuncia la pubblicazione di una collana sul comunismo aperta dall'imminente uscita di un “Libro nero del comunismo europeo”.
C'è da chiedersi perciò come mai, nonostante il comunismo venga dato per morto e sepolto un giorno sì e l'altro pure, la destra neofascista, la “sinistra” borghese e i trotzkisti non perdano occasione, come in questo ghiotto caso del 60° della controrivoluzione ungherese, per attaccarlo e denigrarlo e per demonizzare Stalin, tutti uniti in un sol coro. Nel caso specifico, poi, la cosa appare ancor più disgustosa perché fornisce anche un comodo alibi ad un governo fascista, razzista e xenofobo come quello di Orban, che rivendica legittimamente l'eredità storica e politica di quella controrivoluzione. I cui frutti non furono certo la produzione ovunque di “esperienze di rifondazione e rilancio del carattere democratico ed emancipativo del progetto socialista e comunista”, come blatera la Direzione di Rifondazione trotzkista, ma piuttosto la restaurazione del capitalismo e il risorgere del fascismo dalle macerie del revisionismo e dal veleno dell'anticomunismo e dell'antistalinismo.

(Articolo de “Il Bolscevico”, organo del PMLI n. 42/2016)

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