(Nota de Luminoso Futuro: Pongo
a manos de nuestros visitantes lectores el I Capítulo de la obra intitulada “Stalin
– Storia e critica di una leggenda nera” (“Stalin – Historia y crítica de una
leyenda negra”). El autor, Dominico Losurdo, es un intelectual muy reconocido
en los ambientes marxistas del mundo; el proviene del área revisionista moderno,
en su particularidad italiana. De ahí, advierto a los lectores él no fuma de
los cigarros nuestros, porque marxistas-leninistas-maoístas nosotros. Lo
reproducimos, honestidad de él de por medio, porque en dicho capítulo destruye
científicamente algunas adulteraciones y mentiras propaladas por el homúnculo
Nikita Kruschev en su tristemente célebre Informe Secreto al XX Congreso del
Partido Comunista de la Unión Soviética, en febrero de 1956.
Una excusa necesaria: Como podrá comprobar el lector el artículo es largo y le presentamos en su idioma original
(el italiano). No conociendo el mismo –sólo lo leo- no he podido traducirlo.
Por lo cual, rogamos nos excusen por esta deficiencia; ármense de paciencia, consíganse
un diccionario bilingüe, si no lo hablan tampoco, para que se ayuden con el
traductor de google, y podrán así adentrarse en un episodio trascendental de la
historia del siglo XX y el verdadero papel de José Stalin en el mismo. La
figura de éste sale en toda su talla de gigante, mientras que su denigrador,
Kruschev, aparecerá por el contrario como el más vil traidor de todos los
tiempos).
Come precipitare un dio nell'inferno:
il Rapporto Chruscev
Un «enorme, cupo,
capriccioso, degenerato mostro umano»
Se
analizziamo oggi Sul culto della personalità e le sue conseguenze, letto da
Chruscév in una seduta riservata del Congresso del Pcus e divenuto poi celebre
come Rapporto segreto, una caratteristica balza subito agli occhi: siamo in
presenza di una requisitoria che si propone di liquidare Stalin sotto ogni
aspetto. A essere responsabile di crimini orrendi era un indivi¬duo spregevole
sia sul piano morale sia su quello intellettuale. Oltre che spietato, il
dittatore era anche risibile: conosceva il paese e la situazione agricola «solo
per mezzo dei film»; e, per di più, di film che «abbellivano» la realtà sino al
punto da renderla irriconoscibile. Più che da una logica politica o
realpolitica, la repressione sanguinosa da lui scatenata era stata dettata dal
capriccio personale e da una patologica libido dominandi. Emergeva così il
ritratto – osservava compiaciuto Deutscher nel giugno 1956, folgorato dalle "rivelazioni" di
Chruscév e dimentico del rispettoso e a tratti ammirato ritratto di Stalin da
lui tracciato tre anni prima – di un «enorme, cupo, capriccioso, degenerato
mostro umano». Il despota
spietato era stato così privo di scrupoli da essere
sospettato di aver trama¬to l'assassinio di quello che era o sembrava essere il
suo migliore amico, Kirov, in modo da poter accusare di questo crimine e
liquidare l'uno dopo l'altro gli oppositori, reali o potenziali, veri o immaginari, del pote¬re. Né la
spietata repressione si era abbattuta solo su individui e gruppi politici. No, essa aveva comportato «le
deportazioni di massa di intere popolazioni», arbitrariamente accusate e
condannate in blocco per conni¬venza col nemico. Ma almeno aveva Stalin
contribuito a salvare il suo paese e il mondo dall'orrore del Terzo Reich? Al contrario – incalzava
Chruscév – la Grande guerra patriottica era stata vinta nonostante la fol¬lia
del dittatore: era stato solo grazie alla sua imprevidenza, alla sua
ostinazione, alla cieca fiducia da lui riposta in Hitler che le truppe del Terzo Reich erano riuscite
inizialmente ad irrompere in profondità nel territorio sovietico, seminando
morte e distruzione su larghissima scala.
Sì, per colpa di Stalin, al tragico appuntamento l'Unione Sovietica era giunta impreparata e indifesa: «Noi avevamo cominciato a modernizzare il nostro equipaggiamento militare solo alla vigilia della guerra. All'inizio della guerra eravamo privi anche di un numero di fucili sufficiente per armare gli effettivi mobilitati». Come se tutto ciò non ba¬stasse, «dopo le prime disfatte e i primi disastri al fronte» il responsabile di tutto ciò si era abbandonato allo scoramento e persino all'apatia. Vinto dalla sensazione della disfatta («Tutto ciò che Lenin aveva creato noi l'abbiamo perduto per sempre»), incapace di reagire, Stalin «si astenne per lungo tempo dal dirigere le operazioni militari e smise di occuparsi di qualunque cosa» 4. È vero, trascorso qualche tempo, pie¬gandosi finalmente alle insistenze degli altri membri dell'Ufficio politi¬co, era tornato al suo posto. Non l'avesse mai fatto! A dirigere monocra¬ticamente, anche sul piano militare, l'Unione Sovietica impegnata in una prova mortale era stato un dittatore così incompetente da non avere alcuna «familiarità con la condotta delle operazioni militari». È un capo d'accusa su cui il Rapporto segreto insiste con forza: «Bisogna tener pre¬sente che Stalin preparava i suoi piani su di un mappamondo. Sì, com¬pagni, egli segnava la linea del fronte sul mappamondo». Nonostante tutto, la guerra si era felicemente conclusa; e, tuttavia, la paranoia san¬guinaria del dittatore si era ulteriormente aggravata. A questo punto si può considerare completo il ritratto del «degenerato mostro umano» che emerge, secondo l'osservazione di Deutscher, dal Rapporto segreto.
Erano trascorsi appena tre anni dalle manifestazioni di cordoglio provocate dalla morte di Stalin, e così forte e persistente era ancora la sua popolarità che, almeno in URSS, la campagna lanciata da Chruscév incontrò inizialmente una «forte resistenza»:
Il 5 marzo 1956 gli studenti a Tiblisi scesero in strada per deporre fiori al monu¬mento a Stalin in occasione del terzo anniversario della sua morte e questo gesto in onore di Stalin si trasformò in una protesta contro le deliberazioni del xx Congres¬so. Le dimostrazioni e le assemblee proseguirono per cinque giorni, finché, la sera del 9 marzo, furono mandati carri armati in città per restaurare l'ordine .
Forse questo spiega le caratteristiche del testo che stiamo esaminando. In URSS e nel campo socialista era in corso un'aspra lotta politica, e il ritratto caricaturale di Stalin serviva egregiamente a delegittimare gli "stalinisti" che potevano fare ombra al nuovo leader. Il «culto della persona¬lità», che sino a quel momento aveva imperversato, non consentiva giu¬dizi più sfumati: occorreva precipitare un dio nell'inferno. Qualche de¬cennio Prima, nel corso di un'altra battaglia politica dalle caratteristiche diverse, ma non meno aspra, Trockij aveva tracciato anche lui un ritrat¬to di Stalin teso non solo a condannarlo sul piano politico e morale, ma anche a ridicolizzarlo sul piano personale: si trattava di un «piccolo pro¬vinciale», di un individuo caratterizzato sin dagli inizi da un'irrimedia¬bile mediocrità e goffaggine, che dava regolarmente cattiva prova di sé in ambito politico, militare e ideologico, che non riusciva mai a dismet¬tere la «rozzezza del contadino». Certo, nel 1913 aveva pubblicato un saggio di innegabile valore teorico (Il marxismo e il problema delle nazio¬nalità), ma il vero autore era Lenin, mentre il firmatario andava inserito nella categoria degli «usurpatori» dei «diritti intellettuali» del grande rivoluzionario.
Tra i due ritratti non mancano i punti di contatto. Chruscév insi¬nua che il vero mandante dell'assassinio di Kirov era stato Stalin, ma quest'ultimo era stato accusato o sospettato da Trockij di aver con la sua «ferocia mongolica» accelerato la morte di Lenin'. Il Rapporto segreto rimprovera a Stalin la fuga codarda dalle sue responsabilità agli inizi del¬l'aggressione hitleriana, ma già il 2 settembre 1939, con largo anticipo ri¬spetto all'operazione Barbarossa, Trockij aveva scritto che la «nuova ari¬stocrazia» al potere a Mosca era fra l'altro caratterizzata dalla «sua inca¬pacità di condurre una guerra»; la «casta dominante» in Unione Sovieti¬ca era destinata ad assumere l'atteggiamento «proprio di tutti i regimi destinati al tramonto: "dopo di noi il diluvio"».
Largamente convergenti tra di loro, sino a che punto questi due ri¬tratti resistono all'indagine storica? Conviene cominciare ad analizzare il Rapporto segreto che, ufficializzato da un Congresso del Pcus e dai massimi dirigenti del partito al potere, si impone subito come la rivela-zione di una verità a lungo
repressa ma ormai incontestabile.
La Grande guerra patriottica e le «invenzioni» di Chruscév
Sì, per colpa di Stalin, al tragico appuntamento l'Unione Sovietica era giunta impreparata e indifesa: «Noi avevamo cominciato a modernizzare il nostro equipaggiamento militare solo alla vigilia della guerra. All'inizio della guerra eravamo privi anche di un numero di fucili sufficiente per armare gli effettivi mobilitati». Come se tutto ciò non ba¬stasse, «dopo le prime disfatte e i primi disastri al fronte» il responsabile di tutto ciò si era abbandonato allo scoramento e persino all'apatia. Vinto dalla sensazione della disfatta («Tutto ciò che Lenin aveva creato noi l'abbiamo perduto per sempre»), incapace di reagire, Stalin «si astenne per lungo tempo dal dirigere le operazioni militari e smise di occuparsi di qualunque cosa» 4. È vero, trascorso qualche tempo, pie¬gandosi finalmente alle insistenze degli altri membri dell'Ufficio politi¬co, era tornato al suo posto. Non l'avesse mai fatto! A dirigere monocra¬ticamente, anche sul piano militare, l'Unione Sovietica impegnata in una prova mortale era stato un dittatore così incompetente da non avere alcuna «familiarità con la condotta delle operazioni militari». È un capo d'accusa su cui il Rapporto segreto insiste con forza: «Bisogna tener pre¬sente che Stalin preparava i suoi piani su di un mappamondo. Sì, com¬pagni, egli segnava la linea del fronte sul mappamondo». Nonostante tutto, la guerra si era felicemente conclusa; e, tuttavia, la paranoia san¬guinaria del dittatore si era ulteriormente aggravata. A questo punto si può considerare completo il ritratto del «degenerato mostro umano» che emerge, secondo l'osservazione di Deutscher, dal Rapporto segreto.
Erano trascorsi appena tre anni dalle manifestazioni di cordoglio provocate dalla morte di Stalin, e così forte e persistente era ancora la sua popolarità che, almeno in URSS, la campagna lanciata da Chruscév incontrò inizialmente una «forte resistenza»:
Il 5 marzo 1956 gli studenti a Tiblisi scesero in strada per deporre fiori al monu¬mento a Stalin in occasione del terzo anniversario della sua morte e questo gesto in onore di Stalin si trasformò in una protesta contro le deliberazioni del xx Congres¬so. Le dimostrazioni e le assemblee proseguirono per cinque giorni, finché, la sera del 9 marzo, furono mandati carri armati in città per restaurare l'ordine .
Forse questo spiega le caratteristiche del testo che stiamo esaminando. In URSS e nel campo socialista era in corso un'aspra lotta politica, e il ritratto caricaturale di Stalin serviva egregiamente a delegittimare gli "stalinisti" che potevano fare ombra al nuovo leader. Il «culto della persona¬lità», che sino a quel momento aveva imperversato, non consentiva giu¬dizi più sfumati: occorreva precipitare un dio nell'inferno. Qualche de¬cennio Prima, nel corso di un'altra battaglia politica dalle caratteristiche diverse, ma non meno aspra, Trockij aveva tracciato anche lui un ritrat¬to di Stalin teso non solo a condannarlo sul piano politico e morale, ma anche a ridicolizzarlo sul piano personale: si trattava di un «piccolo pro¬vinciale», di un individuo caratterizzato sin dagli inizi da un'irrimedia¬bile mediocrità e goffaggine, che dava regolarmente cattiva prova di sé in ambito politico, militare e ideologico, che non riusciva mai a dismet¬tere la «rozzezza del contadino». Certo, nel 1913 aveva pubblicato un saggio di innegabile valore teorico (Il marxismo e il problema delle nazio¬nalità), ma il vero autore era Lenin, mentre il firmatario andava inserito nella categoria degli «usurpatori» dei «diritti intellettuali» del grande rivoluzionario.
Tra i due ritratti non mancano i punti di contatto. Chruscév insi¬nua che il vero mandante dell'assassinio di Kirov era stato Stalin, ma quest'ultimo era stato accusato o sospettato da Trockij di aver con la sua «ferocia mongolica» accelerato la morte di Lenin'. Il Rapporto segreto rimprovera a Stalin la fuga codarda dalle sue responsabilità agli inizi del¬l'aggressione hitleriana, ma già il 2 settembre 1939, con largo anticipo ri¬spetto all'operazione Barbarossa, Trockij aveva scritto che la «nuova ari¬stocrazia» al potere a Mosca era fra l'altro caratterizzata dalla «sua inca¬pacità di condurre una guerra»; la «casta dominante» in Unione Sovieti¬ca era destinata ad assumere l'atteggiamento «proprio di tutti i regimi destinati al tramonto: "dopo di noi il diluvio"».
Largamente convergenti tra di loro, sino a che punto questi due ri¬tratti resistono all'indagine storica? Conviene cominciare ad analizzare il Rapporto segreto che, ufficializzato da un Congresso del Pcus e dai massimi dirigenti del partito al potere, si impone subito come la rivela-zione di una verità a lungo
repressa ma ormai incontestabile.
La Grande guerra patriottica e le «invenzioni» di Chruscév
A
partire da Stalingrado e dalla disfatta inflitta al Terzo Reich (ad una potenza
che pareva invincibile), Stalin aveva acquisito enorme prestigio in tutto il
mondo. E, non a caso, su questo punto Chruscév si sofferma in modo particolare.
Egli descrive in termini catastrofici l'impreparazio¬ne militare dell'Unione
Sovietica, il cui esercito, in alcuni casi, sarebbe stato sprovvisto persino
dell'armamento più elementare. Direttamente contrapposto è il quadro emergente
da uno studio che sembra pervenire dagli ambienti della Bundeswehr e che
comunque fa largo uso dei suoi archivi militari. Vi si parla della «molteplice
superiorità dell'Armata ros¬sa in carri armati, aerei e pezzi d'artiglieria»;
d'altro canto, «la capacità industriale dell'Unione Sovietica aveva raggiunto
dimensioni tali da po¬ter procurare alle forze armate sovietiche un armamento
pressoché inimmaginabile». Esso cresce a ritmi sempre più serrati man mano che
ci si avvicina all'operazione Barbarossa. Un dato è particolarmente elo¬quente:
se nel 1940 l'Unione Sovietica produceva 358 carri armati del tipo più
avanzato, nettamente superiori a quelli a disposizione degli altri eserciti,
nel primo semestre dell'anno successivo ne produceva 1.503 . A loro volta, i
documenti provenienti dagli archivi russi dimostrano che, almeno nei due anni
immediatamente precedenti l'aggressione del Ter¬zo Reich, Stalin è
letteralmente ossessionato dal problema dell'«incre¬mento quantitativo» e del
«miglioramento qualitativo dell'intero appa-rato militare». Alcuni dati sono di
per sé eloquenti: se nel primo piano quinquennale ammontano al 5,4% delle spese
statali complessive, nel 1941 gli stanziamenti per la difesa salgono al 43,4%;
«nel settembre 1939, su ordine di Stalin il Politbjuro prese la decisione di costruire
entro il 1941 nove nuove fabbriche per la produzione di aerei»; al momento del¬l'invasione hitleriana
«l'industria aveva prodotto 2.700 aerei moderni e 4.300 carri armati». A
giudicare da questi dati, tutto si può dire, tran¬ne che l'URSS sia giunta
impreparata al tragico appuntamento con la guerra.
D'altro canto, già un decennio fa una storica statunitense ha inferto un duro colpo al mito del crollo e della fuga dalle sue responsabilità da parte del dirigente sovietico subito dopo l'inizio dell'invasione nazista: «per quanto scosso, il giorno dell'attacco Stalin indisse una riunione di undici ore con capi di partito, di governo e militari, e nei giorni succes¬sivi fece lo stesso». Ma ora abbiamo a disposizione il registro dei visi¬tatori dell'ufficio di Stalin al Cremlino, scoperto agli inizi degli anni no¬vanta: risulta che sin dalle ore immediatamente successive all'aggressio¬ne il leader sovietico si impegna in una fittissima rete di incontri e ini¬ziative per organizzare la resistenza. Sono giorni e notti caratterizzati da un'«attività [ ... ] estenuante», ma ordinata. In ogni caso, «l'intero episo¬dio [raccontato da Chruscév] è totalmente inventato», questa «storia è falsa». In realtà sin dagli inizi dell'operazione Barbarossa, Stalin non solo prende le decisioni più impegnative, impartendo disposizioni per lo spostamento della popolazione e degli impianti industriali dalla zona del fronte, ma «controlla tutto in modo minuzioso, dalla grandezza e dalla forma delle baionette sino agli autori e ai titoli degli articoli della "Pravda"». Non c'è traccia né di panico né di isteria. Leggiamo la nota di diario e la testimonianza di Dimitrov: «Alle 7 di mattina mi hanno chiamato con urgenza al Cremlino. La Germania ha attaccato l'URSS. E' iniziata la guerra [ ... ]. Sorprendente calma, fermezza, sicurez¬za in Stalin e in tutti gli altri». Ancora di più colpisce la chiarezza di idee. Non si tratta solo di procedere alla «mobilitazione generale delle nostre forze». È necessario anche definire il quadro politico. Sì, «solo i comunisti possono vincere i fascisti», ponendo fine all'ascesa apparente¬mente irresistibile del Terzo Reich, ma non bisogna perdere di vista la reale natura del conflitto: “I partiti [comunisti] sviluppano sul posto un movimento in difesa dell'URSS. Non porre la questione della rivoluzio¬ne socialista. Il popolo sovietico combatte una guerra patriottica contro la Germania fascista. Il problema è la disfatta del fascismo, che ha asser¬vito una serie di popoli e tenta di asservire anche altri popoli».
La strategia politica che avrebbe presieduto alla Grande guerra pa¬triottica è ben delineata. Già alcuni mesi prima Stalin aveva sottolineato che, all'espansionismo dispiegato dal Terzo Reich «all'insegna dell'as¬servimento, della sottomissione degli altri popoli», questi rispondevano con giuste guerre di resistenza e liberazione nazionale. D'altro canto, a coloro che scolasticamente contrapponevano patriotti¬smo e internazionalismo, l'Internazionale comunista aveva provveduto a rispondere ancora una volta già prima dell'aggressione hitleriana, come risulta dalla nota di diario di Dimitrov del 12 maggio 1941:
Bisogna sviluppare l'idea che coniuga un sano nazionalismo, correttamente inteso, con l'internazionalismo proletario. L'internazionalismo proletario deve poggiare su questo nazionalismo nei singoli paesi [... ]. Tra il nazionalismo correttamente inteso e l'internazionalismo proletario non c'è e non può esserci contraddizione. Il cosmopolitismo senza patria, che nega il sentimento nazionale e l'idea di patria, non ha nulla da spartire con l'internazionalismo proletario.
Ben lungi dall'essere una reazione improvvisata e disperata alla situazio¬ne venutasi a creare con lo scatenamento dell'operazione Barbarossa, la strategia della Grande guerra patriottica esprimeva un orientamento teorico maturato da tempo e di carattere generale: l'internazionalismo e la causa internazionale dell'emancipazione dei popoli avanzavano con-cretamente sull'onda delle guerre di liberazione nazionale, rese necessa¬rie dalla pretesa di Hitler di riprendere e radicalizzare la tradizione colo¬niale, assoggettando e schiavizzando in primo luogo le presunte razze servili dell'Europa orientale. Sono i motivi ripresi nei discorsi e nelle di-chiarazioni pronunciati da Stalin nel corso della guerra: essi costituiro¬no «significative pietre miliari nella chiarificazione della strategia milita¬re sovietica e dei suoi obbiettivi politici e giocarono un ruolo importan¬te nel rafforzare il morale popolare»; ed essi assunsero un rilievo anche internazionale, come osservava contrariato Goebbels a proposito del¬l'appello radio del 3 luglio 1941, che «suscita enorme ammirazione in In¬ghilterra e negli USA».
Una serie di campagne di disinformazione e l'operazione Barbarossa
D'altro canto, già un decennio fa una storica statunitense ha inferto un duro colpo al mito del crollo e della fuga dalle sue responsabilità da parte del dirigente sovietico subito dopo l'inizio dell'invasione nazista: «per quanto scosso, il giorno dell'attacco Stalin indisse una riunione di undici ore con capi di partito, di governo e militari, e nei giorni succes¬sivi fece lo stesso». Ma ora abbiamo a disposizione il registro dei visi¬tatori dell'ufficio di Stalin al Cremlino, scoperto agli inizi degli anni no¬vanta: risulta che sin dalle ore immediatamente successive all'aggressio¬ne il leader sovietico si impegna in una fittissima rete di incontri e ini¬ziative per organizzare la resistenza. Sono giorni e notti caratterizzati da un'«attività [ ... ] estenuante», ma ordinata. In ogni caso, «l'intero episo¬dio [raccontato da Chruscév] è totalmente inventato», questa «storia è falsa». In realtà sin dagli inizi dell'operazione Barbarossa, Stalin non solo prende le decisioni più impegnative, impartendo disposizioni per lo spostamento della popolazione e degli impianti industriali dalla zona del fronte, ma «controlla tutto in modo minuzioso, dalla grandezza e dalla forma delle baionette sino agli autori e ai titoli degli articoli della "Pravda"». Non c'è traccia né di panico né di isteria. Leggiamo la nota di diario e la testimonianza di Dimitrov: «Alle 7 di mattina mi hanno chiamato con urgenza al Cremlino. La Germania ha attaccato l'URSS. E' iniziata la guerra [ ... ]. Sorprendente calma, fermezza, sicurez¬za in Stalin e in tutti gli altri». Ancora di più colpisce la chiarezza di idee. Non si tratta solo di procedere alla «mobilitazione generale delle nostre forze». È necessario anche definire il quadro politico. Sì, «solo i comunisti possono vincere i fascisti», ponendo fine all'ascesa apparente¬mente irresistibile del Terzo Reich, ma non bisogna perdere di vista la reale natura del conflitto: “I partiti [comunisti] sviluppano sul posto un movimento in difesa dell'URSS. Non porre la questione della rivoluzio¬ne socialista. Il popolo sovietico combatte una guerra patriottica contro la Germania fascista. Il problema è la disfatta del fascismo, che ha asser¬vito una serie di popoli e tenta di asservire anche altri popoli».
La strategia politica che avrebbe presieduto alla Grande guerra pa¬triottica è ben delineata. Già alcuni mesi prima Stalin aveva sottolineato che, all'espansionismo dispiegato dal Terzo Reich «all'insegna dell'as¬servimento, della sottomissione degli altri popoli», questi rispondevano con giuste guerre di resistenza e liberazione nazionale. D'altro canto, a coloro che scolasticamente contrapponevano patriotti¬smo e internazionalismo, l'Internazionale comunista aveva provveduto a rispondere ancora una volta già prima dell'aggressione hitleriana, come risulta dalla nota di diario di Dimitrov del 12 maggio 1941:
Bisogna sviluppare l'idea che coniuga un sano nazionalismo, correttamente inteso, con l'internazionalismo proletario. L'internazionalismo proletario deve poggiare su questo nazionalismo nei singoli paesi [... ]. Tra il nazionalismo correttamente inteso e l'internazionalismo proletario non c'è e non può esserci contraddizione. Il cosmopolitismo senza patria, che nega il sentimento nazionale e l'idea di patria, non ha nulla da spartire con l'internazionalismo proletario.
Ben lungi dall'essere una reazione improvvisata e disperata alla situazio¬ne venutasi a creare con lo scatenamento dell'operazione Barbarossa, la strategia della Grande guerra patriottica esprimeva un orientamento teorico maturato da tempo e di carattere generale: l'internazionalismo e la causa internazionale dell'emancipazione dei popoli avanzavano con-cretamente sull'onda delle guerre di liberazione nazionale, rese necessa¬rie dalla pretesa di Hitler di riprendere e radicalizzare la tradizione colo¬niale, assoggettando e schiavizzando in primo luogo le presunte razze servili dell'Europa orientale. Sono i motivi ripresi nei discorsi e nelle di-chiarazioni pronunciati da Stalin nel corso della guerra: essi costituiro¬no «significative pietre miliari nella chiarificazione della strategia milita¬re sovietica e dei suoi obbiettivi politici e giocarono un ruolo importan¬te nel rafforzare il morale popolare»; ed essi assunsero un rilievo anche internazionale, come osservava contrariato Goebbels a proposito del¬l'appello radio del 3 luglio 1941, che «suscita enorme ammirazione in In¬ghilterra e negli USA».
Una serie di campagne di disinformazione e l'operazione Barbarossa
Persino
sul piano della condotta militare vera e propria il Rapporto segre¬to ha
smarrito ogni credibilità. Secondo Chruscév, incurante degli «av¬vertimenti»
che da più parti gli provenivano circa l'imminenza dell'in¬vasione, Stalin va
irresponsabilmente incontro allo sbaraglio. Che dire di questa accusa? Intanto,
anche le informazioni provenienti da un pae¬se amico possono risultare errate:
ad esempio, il 17 giugno 1942 Franklin Delano Roosevelt mette in guardia Stalin
contro un imminente attacco giapponese, che poi non si verifica. Soprattutto,
alla vigilia dell'ag¬gressione hitleriana l'URSS è costretta a districarsi tra
gigantesche mano¬vre di diversione e di disinformazione. Il Terzo Reich
s'impegna massic¬ciamente a far credere che l'ammassamento di truppe a est miri
solo a camuffare l'imminente balzo al di là della Manica, e ciò appare tanto
più credibile dopo la conquista dell'isola di Creta. «L'intero apparato statale
e militare è mobilitato», annota compiaciuto Goebbels sul suo diario (31 maggio
1941), per inscenare la «prima grande ondata mimetiz¬zatrice» dell'operazione
Barbarossa. Ecco allora che «14 divisioni sono trasportate a ovest»; per di
più, tutte le truppe schierate sul fronte oc¬cidentale sono messe in stato di
massima allerta. Circa due settimane dopo l'edizione berlinese del
"Vólkischer Beobachter" pubblica un arti¬colo che addita
l'occupazione di Creta come modello per la progettata resa dei conti con
l'Inghilterra: poche ore dopo il giornale è sequestrato al fine di dare
l'impressione che sia stato maldestramente tradito un se¬greto di enorme
importanza. Tre giorni dopo (14 giugno) Goebbels an¬nota sul suo diario: «Le
radio inglesi dichiarano già che il nostro spiega¬mento contro la Russia è solo
un bluff, dietro il quale cercavamo di na¬scondere i nostri preparativi per
l'invasione [dell'Inghilterra]». A que¬sta campagna di disinformazione se ne
aggiungeva da parte della Ger-mania un'altra: venivano fatte circolare voci,
secondo cui il dispiega¬mento militare a est si proponeva di fare pressioni
sull'URSS, eventual¬mente col ricorso ad un ultimatum, perché Stalin accettasse
di ridefinire le clausole del patto tedesco-sovietico e si impegnasse ad
esportare in maggiore quantità i cereali, il petrolio e il carbone di cui aveva
bisogno il Terzo Reich coinvolto in una guerra che non accennava a concludersi.
Si mirava cioè a far credere che la crisi fosse solubile con nuove trattative e
con qualche concessione supplementare da parte di Mosca. A que¬sta conclusione
pervenivano in Gran Bretagna i servizi d'informazione dell'esercito e i vertici
militari che ancora il 22 maggio avvertivano il Gabinetto di guerra: «Hitler
non ha ancora deciso se perseguire i suoi obbiettivi [in direzione dell'URSS]
con la persuasione o con la forza delle armi». Il 14 giugno Goebbels annota soddisfatto
sul suo diario: «In generale si crede ancora ad un bluff ovvero a un tentativo
di ricatto».
Non bisogna sottovalutare neppure la campagna di disinformazione inscenata sul versante opposto e iniziata già due anni prima: nel novem¬bre 1939, la stampa francese pubblica un fantomatico discorso (pronun¬ciato dinanzi al Politbjuro il 19 agosto di quello stesso anno) in cui Sta¬lin avrebbe esposto un piano per indebolire l'Europa, stimolando al suo interno una guerra fratricida, e poi sovietizzarla. Non ci sono dubbi: si tratta di un falso, che mirava a far saltare il patto di non aggressione te¬desco-sovietico e a indirizzare verso est la furia espansionistica del Terzo Reich. Secondo una diffusa leggenda storiografica, alla vigilia dell'ag¬gressione hitleriana, il governo di Londra avrebbe ripetutamente e di¬sinteressatamente messo in guardia Stalin, il quale però, da buon ditta¬tore, si sarebbe fidato solo del suo omologo berlinese. In realtà, se da un lato comunica a Mosca le informazioni relative all'operazione Barbaros¬sa, dall'altro la Gran Bretagna diffonde voci su un imminente attacco dell'URSS contro la Germania o i territori da essa occupati. Evidente e comprensibile è l'interesse a rendere inevitabile o far precipitare il più rapidamente possibile il conflitto tedesco-sovietico.
Interviene poi il misterioso volo in Inghilterra di Rudolf Hess, chia¬ramente animato dalla speranza di ricostituire l'unità dell'Occidente nella lotta contro il bolscevismo, conferendo così concretezza al pro¬gramma enunciato dal Mein Kampf di alleanza e solidarietà dei popoli germanici nella loro missione civilizzatrice. Gli agenti sovietici all'estero informano il Cremlino che il numero due del regime nazista ha preso la sua iniziativa in pieno accordo col Führer. D'altro canto, personalità di un certo rilievo del Terzo Reich hanno continuato sino all'ultimo a sostenere la tesi secondo la quale Hess aveva agito su incoraggiamento di Hitler. Questi in ogni caso sente il bisogno di inviare immediatamen¬te a Roma il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop al fine di fugare in Mussolini qualsiasi sospetto che la Germania stia tramando una pace separata con la Gran Bretagna. Ovviamente, ancora più for¬te è la preoccupazione da questo colpo di scena suscitata a Mosca, tanto più che ad alimentarla ulteriormente provvede l'atteggiamento del go¬verno britannico: esso non sfrutta la «cattura del vice Führer» al fine di conseguire «il massimo profitto propagandistico, cosa che sia Hitler sia Goebbels si attendevano impauriti»; anzi, l'interrogatorio di Hess – rife¬risce da Londra a Stalin l'ambasciatore Ivan Majskij – è affidato ad un fautore della politica di appeasement. Mentre lasciano la porta aperta ad un riavvicinamento anglosovietico, i servizi segreti di Sua Maestà si im¬pegnano a diffondere le voci, che ormai dilagano, di un'imminente pace separata tra Londra e Berlino; tutto ciò al fine di accrescere la pressione sull'Unione Sovietica (che forse avrebbe cercato di prevenire la paventa¬ta saldatura dell'alleanza tra Gran Bretagna e Terzo Reich con un attac¬co preventivo dell'Armata rossa contro la Wehrmacht) e di rafforzare comunque la capacità contrattuale dell'Inghilterra .
Ben si comprendono la cautela e la diffidenza del Cremlino: era in agguato il pericolo di una riedizione di Monaco su scala ben più larga e ben più tragica. Si può altresì ipotizzare che la seconda campagna di di¬sinformazione inscenata dal Terzo Reich abbia giocato un ruolo. Stan¬do almeno alla trascrizione rinvenuta negli archivi del partito comunista sovietico, pur dando per scontato il coinvolgimento a breve termine dell'URSS nel conflitto, nel discorso rivolto il 5 maggio 1941 ai licenzian¬di dell'Accademia militare Stalin sottolineava come storicamente la Germania avesse conseguito la vittoria quando era stata impegnata su un solo fronte, mentre aveva subito la sconfitta allorché era stata costret¬ta a combattere contemporaneamente a est e a ovest. Ecco, Stalin po¬trebbe aver sottovalutato la sicumera con cui Hitler era pronto ad aggre¬dire l'URSS. D'altro canto, egli ben sapeva che una precipitosa mobilita¬zione totale avrebbe fornito al Terzo Reich su un piatto d'argento il ca¬sus belli, com'era avvenuto allo scoppio della Prima guerra mondiale. C'è comunque un punto fermo: pur muovendosi con circospezione in una situazione assai aggrovigliata, il leader sovietico procede a una «ac¬celerazione dei preparativi di guerra». In effetti, «tra maggio e giugno sono richiamati 800.000 riservisti, a metà maggio 28 divisioni sono di¬slocate nei distretti occidentali dell'Unione Sovietica», mentre procedo¬no a ritmo serrato i lavori di fortificazione delle frontiere e di camuffa¬mento degli obiettivi militari più sensibili. «Nella notte tra 21 e il 22 giu¬gno questa vasta forza è messa in allarme e chiamata a prepararsi per un attacco di sorpresa da parte dei tedeschi».
Per screditare Stalin, Chruscév insiste sulle spettacolari vittorie ini¬ziali dell'esercito invasore, ma sorvola sulle previsioni a suo tempo for¬mulate in Occidente. Dopo lo smembramento della Cecoslovacchia e l'ingresso a Praga della Wehrmacht, lord Halifax aveva continuato a re-spingere l'idea di un riavvicinamento dell'Inghilterra all'URSS facendo ricorso a questo argomento: non aveva senso allearsi con un paese le cui forze armate erano «insignificanti». Alla vigilia dell'operazione Barbarossa o al momento del suo scatenamento i servizi segreti britannici ave¬vano calcolato che l'Unione Sovietica sarebbe stata «liquidata in 8-10 settimane»; a loro volta, i consiglieri del segretario di Stato americano (Henry L. Stimson) avevano previsto il 23 giugno che tutto si sarebbe concluso in un periodo di tempo tra uno e tre mesi. Peraltro, la ful-minea penetrazione in profondità della Wehrmacht – osserva ai giorni nostri un illustre studioso di storia militare – si spiega agevolmente con la geografia:
L'estensione del fronte – 1.800 miglia – e la scarsità di ostacoli naturali offrivano al¬l'aggressore immensi vantaggi per l'infiltrazione e la manovra. Nonostante le di¬mensioni colossali dell'Armata rossa, il rapporto tra le sue forze e lo spazio era così sfavorevole che le unità meccanizzate tedesche potevano trovare agevolmente le oc¬casioni di manovre indirette alle spalle del loro avversario. Inoltre, le città larga¬mente distanziate e dove convergevano strade e ferrovie offrivano all'aggressore la possibilità di puntare su obiettivi alternativi, mettendo il nemico nella difficile si¬tuazione di dover indovinare la reale direzione di marcia e di dover affrontare un dilemma dopo l'altro.
Il rapido delinearsi del fallimento della guerra-lampo
Non bisogna sottovalutare neppure la campagna di disinformazione inscenata sul versante opposto e iniziata già due anni prima: nel novem¬bre 1939, la stampa francese pubblica un fantomatico discorso (pronun¬ciato dinanzi al Politbjuro il 19 agosto di quello stesso anno) in cui Sta¬lin avrebbe esposto un piano per indebolire l'Europa, stimolando al suo interno una guerra fratricida, e poi sovietizzarla. Non ci sono dubbi: si tratta di un falso, che mirava a far saltare il patto di non aggressione te¬desco-sovietico e a indirizzare verso est la furia espansionistica del Terzo Reich. Secondo una diffusa leggenda storiografica, alla vigilia dell'ag¬gressione hitleriana, il governo di Londra avrebbe ripetutamente e di¬sinteressatamente messo in guardia Stalin, il quale però, da buon ditta¬tore, si sarebbe fidato solo del suo omologo berlinese. In realtà, se da un lato comunica a Mosca le informazioni relative all'operazione Barbaros¬sa, dall'altro la Gran Bretagna diffonde voci su un imminente attacco dell'URSS contro la Germania o i territori da essa occupati. Evidente e comprensibile è l'interesse a rendere inevitabile o far precipitare il più rapidamente possibile il conflitto tedesco-sovietico.
Interviene poi il misterioso volo in Inghilterra di Rudolf Hess, chia¬ramente animato dalla speranza di ricostituire l'unità dell'Occidente nella lotta contro il bolscevismo, conferendo così concretezza al pro¬gramma enunciato dal Mein Kampf di alleanza e solidarietà dei popoli germanici nella loro missione civilizzatrice. Gli agenti sovietici all'estero informano il Cremlino che il numero due del regime nazista ha preso la sua iniziativa in pieno accordo col Führer. D'altro canto, personalità di un certo rilievo del Terzo Reich hanno continuato sino all'ultimo a sostenere la tesi secondo la quale Hess aveva agito su incoraggiamento di Hitler. Questi in ogni caso sente il bisogno di inviare immediatamen¬te a Roma il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop al fine di fugare in Mussolini qualsiasi sospetto che la Germania stia tramando una pace separata con la Gran Bretagna. Ovviamente, ancora più for¬te è la preoccupazione da questo colpo di scena suscitata a Mosca, tanto più che ad alimentarla ulteriormente provvede l'atteggiamento del go¬verno britannico: esso non sfrutta la «cattura del vice Führer» al fine di conseguire «il massimo profitto propagandistico, cosa che sia Hitler sia Goebbels si attendevano impauriti»; anzi, l'interrogatorio di Hess – rife¬risce da Londra a Stalin l'ambasciatore Ivan Majskij – è affidato ad un fautore della politica di appeasement. Mentre lasciano la porta aperta ad un riavvicinamento anglosovietico, i servizi segreti di Sua Maestà si im¬pegnano a diffondere le voci, che ormai dilagano, di un'imminente pace separata tra Londra e Berlino; tutto ciò al fine di accrescere la pressione sull'Unione Sovietica (che forse avrebbe cercato di prevenire la paventa¬ta saldatura dell'alleanza tra Gran Bretagna e Terzo Reich con un attac¬co preventivo dell'Armata rossa contro la Wehrmacht) e di rafforzare comunque la capacità contrattuale dell'Inghilterra .
Ben si comprendono la cautela e la diffidenza del Cremlino: era in agguato il pericolo di una riedizione di Monaco su scala ben più larga e ben più tragica. Si può altresì ipotizzare che la seconda campagna di di¬sinformazione inscenata dal Terzo Reich abbia giocato un ruolo. Stan¬do almeno alla trascrizione rinvenuta negli archivi del partito comunista sovietico, pur dando per scontato il coinvolgimento a breve termine dell'URSS nel conflitto, nel discorso rivolto il 5 maggio 1941 ai licenzian¬di dell'Accademia militare Stalin sottolineava come storicamente la Germania avesse conseguito la vittoria quando era stata impegnata su un solo fronte, mentre aveva subito la sconfitta allorché era stata costret¬ta a combattere contemporaneamente a est e a ovest. Ecco, Stalin po¬trebbe aver sottovalutato la sicumera con cui Hitler era pronto ad aggre¬dire l'URSS. D'altro canto, egli ben sapeva che una precipitosa mobilita¬zione totale avrebbe fornito al Terzo Reich su un piatto d'argento il ca¬sus belli, com'era avvenuto allo scoppio della Prima guerra mondiale. C'è comunque un punto fermo: pur muovendosi con circospezione in una situazione assai aggrovigliata, il leader sovietico procede a una «ac¬celerazione dei preparativi di guerra». In effetti, «tra maggio e giugno sono richiamati 800.000 riservisti, a metà maggio 28 divisioni sono di¬slocate nei distretti occidentali dell'Unione Sovietica», mentre procedo¬no a ritmo serrato i lavori di fortificazione delle frontiere e di camuffa¬mento degli obiettivi militari più sensibili. «Nella notte tra 21 e il 22 giu¬gno questa vasta forza è messa in allarme e chiamata a prepararsi per un attacco di sorpresa da parte dei tedeschi».
Per screditare Stalin, Chruscév insiste sulle spettacolari vittorie ini¬ziali dell'esercito invasore, ma sorvola sulle previsioni a suo tempo for¬mulate in Occidente. Dopo lo smembramento della Cecoslovacchia e l'ingresso a Praga della Wehrmacht, lord Halifax aveva continuato a re-spingere l'idea di un riavvicinamento dell'Inghilterra all'URSS facendo ricorso a questo argomento: non aveva senso allearsi con un paese le cui forze armate erano «insignificanti». Alla vigilia dell'operazione Barbarossa o al momento del suo scatenamento i servizi segreti britannici ave¬vano calcolato che l'Unione Sovietica sarebbe stata «liquidata in 8-10 settimane»; a loro volta, i consiglieri del segretario di Stato americano (Henry L. Stimson) avevano previsto il 23 giugno che tutto si sarebbe concluso in un periodo di tempo tra uno e tre mesi. Peraltro, la ful-minea penetrazione in profondità della Wehrmacht – osserva ai giorni nostri un illustre studioso di storia militare – si spiega agevolmente con la geografia:
L'estensione del fronte – 1.800 miglia – e la scarsità di ostacoli naturali offrivano al¬l'aggressore immensi vantaggi per l'infiltrazione e la manovra. Nonostante le di¬mensioni colossali dell'Armata rossa, il rapporto tra le sue forze e lo spazio era così sfavorevole che le unità meccanizzate tedesche potevano trovare agevolmente le oc¬casioni di manovre indirette alle spalle del loro avversario. Inoltre, le città larga¬mente distanziate e dove convergevano strade e ferrovie offrivano all'aggressore la possibilità di puntare su obiettivi alternativi, mettendo il nemico nella difficile si¬tuazione di dover indovinare la reale direzione di marcia e di dover affrontare un dilemma dopo l'altro.
Il rapido delinearsi del fallimento della guerra-lampo
Non
bisogna lasciarsi abbagliare dalle apparenze: a ben guardare, il pro¬getto del
Terzo Reich di rinnovare a est il trionfale Blitzkrieg realizzato a ovest
comincia a rivelarsi problematico già nelle prime settimane del gi¬gantesco
scontro. A tale proposito risultano illuminanti i diari di Jo¬seph Goebbels.
All'immediata vigilia dell'aggressione egli sottolinea l'ir¬resistibilità
dell'imminente attacco tedesco, «senza dubbio il più pode¬roso che la storia
abbia mai conosciuto»; nessuno potrà seriamente con¬trastare il «più forte
schieramento della storia universale». E dunque: «Siamo dinanzi ad una marcia
trionfale senza precedenti. Conside¬ro la forza militare dei russi molto bassa,
ancora più bassa di quanto la consideri il Fuhrer. Se c'era e se c'è un'azione
sicura, è questa». In realtà non è inferiore la sicumera di Hitler, che qualche
mese prima con un diplomatico bulgaro così si era espresso a proposito
dell'esercito so¬vietico: è solo una «barzelletta».
Sennonché, sin dall'inizio gli invasori si imbattono, nonostante tut¬to, in spiacevoli sorprese: «Il 25 giugno, in occasione del primo raid su Mosca, la difesa antiaerea si rivela di una tale efficacia che da quel mo¬mento la Luftwaffe è costretta a limitarsi a raids notturni a ranghi ridot¬ti». Bastano dieci giorni di guerra perché comincino a cadere in crisi le certezze della vigilia. Il 2 luglio Goebbels annota nel suo diario: «Nel complesso, si combatte molto duramente e ostinatamente. Non si può in alcun modo parlare di passeggiata. Il regime rosso ha mobilitato il popolo». Gli avvenimenti incalzano e l'umore dei dirigenti nazisti muta in modo radicale, come emerge sempre dal diario di Goebbels.
24 luglio:
Non possiamo nutrire alcun dubbio sul fatto che il regime bolscevico, che esiste da quasi un quarto di secolo, ha lasciato profonde tracce nei popoli dell'Unione So¬vietica [ ... ]. Sarebbe dunque giusto mettere con grande chiarezza in evidenza, di¬nanzi al popolo tedesco, la durezza della lotta che si svolge a est. Bisogna dire alla nazione che questa operazione è molto difficile, ma che possiamo superarla e che la supereremo.
10 agosto:
Nel quartier generale del Führer apertamente si ammette anche che ci si è un po' sbagliati nella valutazione della forza militare sovietica. I bolscevichi rivelano una resistenza maggiore di quella che supponessimo; soprattutto i mezzi materiali a loro disposizione sono maggiori di quanto pensassimo.
19 agosto:
Il Fuhrer è intimamente molto irritato con se stesso per il fatto di essersi lasciato ingannare sino a tal punto sul potenziale dei bolscevichi dai rapporti [degli agenti tedeschi inviati] dall'Unione Sovietica. Soprattutto la sua sottovalutazione dei car¬ri armati e dell'aviazione del nemico ci ha creato molti problemi. Egli ne ha soffer¬to molto. Si tratta di una grave crisi [...1. Messe a confronto, le campagne condotte sinora erano quasi passeggiate [ ... ]. Per quanto riguarda l'ovest il Führer non ha al¬cun motivo di preoccupazione [...1. Col rigore e con l'oggettività di noi tedeschi abbiamo sempre sopravvalutato il nemico, con l'eccezione in questo caso dei bol-scevichi.
16 settembre:
Abbiamo calcolato il potenziale dei bolscevichi in modo del tutto errato.
Gli studiosi di strategia militare sottolineano le difficoltà impreviste in cui in Unione Sovietica subito si imbatte una macchina da guerra pode¬rosa, sperimentata e circonfusa dal mito dell'invincibilità. E' «partico¬larmente significativa per l'esito della guerra orientale la battaglia di Smolensk della seconda metà di luglio del 1941 (finora rimasta nella ri¬cerca ampiamente coperta dall'ombra di altri accadimenti)» . L'osser¬vazione è di un illustre storico tedesco, che riporta poi queste eloquenti note di diario stese dal generale Fedor von Bock il 20 e il 26 luglio:
Il nemico vuole riconquistare Smolensk ad ogni costo e vi fa giungere sempre nuove forze. L'ipotesi espressa da qualche parte che il nemico agisca senza un piano non trova riscontro nei fatti [ ... ]. Si constata che i russi hanno portato a termine intorno al fronte da me costruito in avanti un nuovo compatto spiegamento di forze. In mol¬ti punti essi tentano di passare all'attacco. Sorprendente per un avversario che ha su¬bito simili colpi; deve possedere una quantità incredibile di materiale, infatti le no¬stre truppe lamentano ancora adesso il forte effetto dell'artiglieria nemica.
Ancora più inquieto e anzi decisamente pessimista è l'ammiraglio Wil¬helm Canaris, dirigente del controspionaggio, che, parlando col genera¬le von Bock il 17 luglio, commenta: «Vedo nero su nero».
Non solo l'esercito sovietico non è allo sbando neppure nei primi giorni e nelle prime settimane dell'attacco e anzi oppone «tenace resi¬stenza», ma esso risulta ben guidato, come rivela fra l'altro la «risolutez¬za di Stalin di arrestare l'avanzata tedesca nel punto per lui determinan¬te». I risultati di questa accorta guida militare si rivelano anche sul piano diplomatico: è proprio perché «impressionato dall'ostinato scontro nel¬l'area di Smolensk» che il Giappone, lì presente con osservatori, decide di respingere la richiesta del Terzo Reich di partecipazione alla guerra contro l'Unione Sovietica. L'analisi dello storico tedesco fieramente anticomunista è confermata in pieno da studiosi russi sull'onda del Rap¬porto Chruscév distintisi quali campioni della lotta contro lo "stalinismo": «I piani del Blitzkrieg [tedesco] erano già naufragati alla metà di luglio». In questo contesto non appare formale l'omaggio che il 14 agosto 1941 Churchill e F. D. Roosevelt rendono alla «splendida difesa» dell'esercito sovietico. Anche al di fuori dei circoli diplomatici e governativi, in Gran Bretagna – ci informa una nota di diario di Beatrice Webb – cittadini ordinari e persino di orientamento conservatore mo¬strano «vivo interesse per il coraggio e per l'iniziativa sorprendenti e per il magnifico equipaggiamento delle forze dell'Armata rossa, per l'unico Stato sovrano in grado di contrastare la potenza pressoché mitica della Germania di Hitler». Nella stessa Germania, già tre settimane dopo l'inizio dell'operazione Barbarossa, cominciano a circolare voci che met¬tono radicalmente in dubbio la versione trionfalistica del regime. È quello che emerge dal diario di un eminente intellettuale tedesco di ori¬gine ebraica: a quanto pare, ad est «subiremmo perdite immense, avremmo sottovalutato la forza di resistenza dei russi», i quali «sarebbe¬ro inesauribili in uomini e materiale bellico».
A lungo letta come espressione di insipienza politico-militare o ad¬dirittura di cieca fiducia nei confronti del Terzo Reich, la condotta estremamente cauta di Stalin nelle settimane che precedono lo scoppio delle ostilità appare ora in una luce del tutto diversa: «II concentramen¬to delle forze della Wehrmacht lungo il confine con l'URSS, la violazione dello spazio aereo sovietico e numerose altre provocazioni avevano un unico scopo: attirare il grosso dell'Armata rossa il più vicino possibile al confine. Hitler intendeva vincere la guerra in una singola gigantesca battaglia». A sentirsi attratti dalla trappola sono persino valorosi generali che, in previsione dell'irruzione del nemico, premono per un massiccio spostamento di truppe alla frontiera: «Stalin respinse categoricamente la richiesta, insistendo sulla necessità di mantenere riserve di vasta scala a
considerevole distanza dalla linea del fronte». Più tardi, avendo preso vi¬sione dei piani strategici degli ideatori dell'operazione Barbarossa, il maresciallo Georgij K. Zukov ha riconosciuto la saggezza della linea adottata da Stalin: «Il comando di Hitler contava su uno spostamento del grosso delle nostre forze al confine con l'intenzione di circondarlo e distruggerlo».
In effetti, nei mesi che precedono l'invasione dell'URSS, discutendo coi suoi generali, il Führer osserva: «Problema dello spazio russo. L'am¬piezza infinita dello spazio rende necessaria la concentrazione in punti decisivi». Più tardi, ad operazione Barbarossa già iniziata, in una conversazione egli chiarisce ulteriormente il suo pensiero: «Nella storia mondiale ci sono state sinora solo tre battaglie di annientamento: Can¬ne, Sedan e Tannenberg. Possiamo essere orgogliosi per il fatto che due di esse sono state vittoriosamente combattute da eserciti tedeschi». Sen¬nonché, per la Germania si rivela sempre più elusiva la terza e più gran¬diosa battaglia decisiva di accerchiamento e annientamento agognata da Hitler, il quale una settimana dopo è costretto a riconoscere che l'opera¬zione Barbarossa aveva seriamente sottovalutato il nemico: «la prepara¬zione bellica dei russi dev'essere considerata fantastica». Trasparente è qui il desiderio del giocatore d'azzardo di giustificare il fallimento delle sue previsioni. E, tuttavia, a conclusioni non dissimili giunge lo studio¬so inglese di strategia militare già citato: il motivo della disfatta dei francesi risiede «non nella quantità o qualità del loro materiale bensì nella loro dottrina militare»; per di più, agisce rovinosamente lo schieramen¬to troppo avanzato dell'esercito, che «compromette gravemente la sua duttilità strategica»; un errore simile era stato commesso anche dalla Po¬lonia, favorito «dalla fierezza nazionale e dalla fiducia eccessiva dei mili¬tari». Nulla di tutto ciò si verifica in Unione Sovietica.
Più importante delle singole battaglie è il quadro d'assieme: «II si¬stema staliniano riuscì a mobilitare l'immensa maggioranza della popo¬lazione e la quasi totalità delle risorse»; in particolare, «straordinaria» fu la «capacità dei sovietici», in una situazione così difficile come quella venutasi a creare nei primi mesi di guerra, «di evacuare e poi di ricon¬vertire per la produzione militare un numero considerevole di indu¬strie». Sì, «messo in piedi due giorni dopo l'invasione tedesca, il Comi¬tato per l'evacuazione riuscì a spostare a est 1.500 grandi imprese indu¬striali, al termine di operazioni titaniche di una grande complessità lo¬gistica». Peraltro, questo processo di dislocazione era già iniziato nel¬le settimane o nei mesi che precedono l'aggressione hitleriana, a conferma ulteriore del carattere fantasioso dell'accusa lanciata da Chruscév.
C'è di più. Il gruppo dirigente sovietico aveva in qualche modo in¬tuito le modalità della guerra, che si andava profilando all'orizzonte, già al momento in cui aveva promosso l'industrializzazione del paese: con una radicale svolta rispetto alla situazione precedente, esso aveva identi¬ficato «un punto focale nella Russia asiatica», lontano e al riparo dai pre¬sumibili aggressori. In effetti, su ciò Stalin aveva insistito ripetuta¬mente e vigorosamente. 31 gennaio 1931: s'imponeva la «creazione di un'industria nuova e ben attrezzata negli Urali, in Siberia, nel Kazacha¬stan». Pochi anni dopo, il Rapporto pronunciato il 26 gennaio 1934 al XVII Congresso del Pcus aveva richiamato compiaciuto l'attenzione sul poderoso sviluppo industriale che nel frattempo si era verificato «in Asia centrale, nel Kazachastan, nelle Repubbliche dei Buriati, dei Tatari e dei Baschiri, negli Urali, nella Siberia orientale e occidentale, nell'Estremo Oriente ecc.». Le implicazioni di tutto ciò non erano sfuggite a Troc¬kij che qualche anno dopo, nell'analizzare i pericoli di guerra e il grado di preparazione dell'Unione Sovietica e nel sottolineare i risultati conse¬guiti dall'«economia pianificata» in ambito «militare», aveva osservato: «L'industrializzazione delle regioni remote, principalmente della Sibe¬ria, conferisce alle distese delle steppe e delle foreste un'importanza nuova». Solo ora i grandi spazi assumevano tutto il loro valore e ren¬devano più problematica che mai la guerra-lampo tradizionalmente agognata e preparata dallo stato maggiore tedesco.
È proprio sul terreno dell'apparato industriale edificato in previsio¬ne della guerra che il Terzo Reich è costretto a registrare le sorprese più amare, come emerge da due commenti di Hitler. 29 novembre 1941: «Com'è possibile che un popolo così primitivo possa raggiungere simili traguardi tecnici in così poco tempo?». 26 agosto 1942: «Per quanto riguarda la Russia, è incontestabile che Stalin ha elevato il tenore di vita. Il popolo russo non soffriva la fame [al momento dello scatenamento dell'operazione Barbarossa]. Nel complesso occorre riconoscere: sono state costruite officine dell'importanza delle Hermann Goering Werke là dove fino a due anni fa non esistevano che villaggi sconosciuti. Trovia¬mo linee ferroviarie che non sono indicate sulle carte».
A questo punto conviene dare la parola a tre studiosi fra loro assai diversi (l'uno russo e gli altri due occidentali). Il primo, che ha a suo tempo diretto l'Istituto sovietico di storia militare e che ha condiviso l'antistalinismo militante degli anni di Gorbacev, sembra ispirato dal-l'intenzione di riprendere e radicalizzare la requisitoria del Rapporto Chruscév. E, tuttavia, dai risultati stessi della sua ricerca egli si sente co¬stretto a formulare un giudizio assai più sfumato: senza essere uno specialista e tanto meno il genio dipinto dalla propaganda ufficiale, già ne¬gli anni che precedono lo scoppio della guerra Stalin si occupa intensa¬mente dei problemi della difesa, dell'industria della difesa e dell'econo¬mia di guerra nel suo complesso. Sì, sul piano strettamente militare, solo attraverso tentativi ed errori anche gravi e «grazie alla dura prassi della quotidiana vita militare», egli «apprende gradualmente i principi della strategia» In altri campi, però, il suo pensiero si rivela «più sviluppato di quello di molti leader militari sovietici». Grazie anche alla lunga pratica di gestione del potere politico, Stalin non perde mai di vi¬sta il ruolo centrale dell'economia di guerra, e contribuisce a rafforzare la resistenza dell'URSS col trasferimento verso l'interno delle industrie bel¬liche: «è pressoché impossibile sopravvalutare l'importanza di questa im¬presa». Grande attenzione il leader sovietico presta infine alla dimen-sione politico-morale della guerra. In questo campo egli «aveva idee del tutto fuori del comune», come dimostra la decisione «coraggiosa e lungi¬mirante», presa nonostante lo scetticismo dei suoi collaboratori, di effet¬tuare la parata militare di celebrazione dell'anniversario della Rivoluzio¬ne d'ottobre il 7 novembre 1941, in una Mosca assediata e incalzata dal nemico nazista. In sintesi, si può dire che rispetto ai militari di carriera e alla cerchia dei suoi collaboratori in generale, «Stalin mostra un pensiero più universale». Ed è un pensiero – si può aggiungere – che non tra¬scura neppure gli aspetti più minuti della vita e del morale dei soldati: in¬formato del fatto che essi erano rimasti senza sigarette, grazie anche alla sua capacità di disbrigare «un enorme carico di lavoro», «nel momento cruciale della battaglia di Stalingrado, egli [Stalin] trovò il tempo di chiamare al telefono Akaki Mgeladze, capo del partito dell'Abhasia, la regione di coltivazione del tabacco: “I nostri soldati non hanno più la possibilità di fumare! Senza sigarette il fronte non regge! "».
Sennonché, sin dall'inizio gli invasori si imbattono, nonostante tut¬to, in spiacevoli sorprese: «Il 25 giugno, in occasione del primo raid su Mosca, la difesa antiaerea si rivela di una tale efficacia che da quel mo¬mento la Luftwaffe è costretta a limitarsi a raids notturni a ranghi ridot¬ti». Bastano dieci giorni di guerra perché comincino a cadere in crisi le certezze della vigilia. Il 2 luglio Goebbels annota nel suo diario: «Nel complesso, si combatte molto duramente e ostinatamente. Non si può in alcun modo parlare di passeggiata. Il regime rosso ha mobilitato il popolo». Gli avvenimenti incalzano e l'umore dei dirigenti nazisti muta in modo radicale, come emerge sempre dal diario di Goebbels.
24 luglio:
Non possiamo nutrire alcun dubbio sul fatto che il regime bolscevico, che esiste da quasi un quarto di secolo, ha lasciato profonde tracce nei popoli dell'Unione So¬vietica [ ... ]. Sarebbe dunque giusto mettere con grande chiarezza in evidenza, di¬nanzi al popolo tedesco, la durezza della lotta che si svolge a est. Bisogna dire alla nazione che questa operazione è molto difficile, ma che possiamo superarla e che la supereremo.
10 agosto:
Nel quartier generale del Führer apertamente si ammette anche che ci si è un po' sbagliati nella valutazione della forza militare sovietica. I bolscevichi rivelano una resistenza maggiore di quella che supponessimo; soprattutto i mezzi materiali a loro disposizione sono maggiori di quanto pensassimo.
19 agosto:
Il Fuhrer è intimamente molto irritato con se stesso per il fatto di essersi lasciato ingannare sino a tal punto sul potenziale dei bolscevichi dai rapporti [degli agenti tedeschi inviati] dall'Unione Sovietica. Soprattutto la sua sottovalutazione dei car¬ri armati e dell'aviazione del nemico ci ha creato molti problemi. Egli ne ha soffer¬to molto. Si tratta di una grave crisi [...1. Messe a confronto, le campagne condotte sinora erano quasi passeggiate [ ... ]. Per quanto riguarda l'ovest il Führer non ha al¬cun motivo di preoccupazione [...1. Col rigore e con l'oggettività di noi tedeschi abbiamo sempre sopravvalutato il nemico, con l'eccezione in questo caso dei bol-scevichi.
16 settembre:
Abbiamo calcolato il potenziale dei bolscevichi in modo del tutto errato.
Gli studiosi di strategia militare sottolineano le difficoltà impreviste in cui in Unione Sovietica subito si imbatte una macchina da guerra pode¬rosa, sperimentata e circonfusa dal mito dell'invincibilità. E' «partico¬larmente significativa per l'esito della guerra orientale la battaglia di Smolensk della seconda metà di luglio del 1941 (finora rimasta nella ri¬cerca ampiamente coperta dall'ombra di altri accadimenti)» . L'osser¬vazione è di un illustre storico tedesco, che riporta poi queste eloquenti note di diario stese dal generale Fedor von Bock il 20 e il 26 luglio:
Il nemico vuole riconquistare Smolensk ad ogni costo e vi fa giungere sempre nuove forze. L'ipotesi espressa da qualche parte che il nemico agisca senza un piano non trova riscontro nei fatti [ ... ]. Si constata che i russi hanno portato a termine intorno al fronte da me costruito in avanti un nuovo compatto spiegamento di forze. In mol¬ti punti essi tentano di passare all'attacco. Sorprendente per un avversario che ha su¬bito simili colpi; deve possedere una quantità incredibile di materiale, infatti le no¬stre truppe lamentano ancora adesso il forte effetto dell'artiglieria nemica.
Ancora più inquieto e anzi decisamente pessimista è l'ammiraglio Wil¬helm Canaris, dirigente del controspionaggio, che, parlando col genera¬le von Bock il 17 luglio, commenta: «Vedo nero su nero».
Non solo l'esercito sovietico non è allo sbando neppure nei primi giorni e nelle prime settimane dell'attacco e anzi oppone «tenace resi¬stenza», ma esso risulta ben guidato, come rivela fra l'altro la «risolutez¬za di Stalin di arrestare l'avanzata tedesca nel punto per lui determinan¬te». I risultati di questa accorta guida militare si rivelano anche sul piano diplomatico: è proprio perché «impressionato dall'ostinato scontro nel¬l'area di Smolensk» che il Giappone, lì presente con osservatori, decide di respingere la richiesta del Terzo Reich di partecipazione alla guerra contro l'Unione Sovietica. L'analisi dello storico tedesco fieramente anticomunista è confermata in pieno da studiosi russi sull'onda del Rap¬porto Chruscév distintisi quali campioni della lotta contro lo "stalinismo": «I piani del Blitzkrieg [tedesco] erano già naufragati alla metà di luglio». In questo contesto non appare formale l'omaggio che il 14 agosto 1941 Churchill e F. D. Roosevelt rendono alla «splendida difesa» dell'esercito sovietico. Anche al di fuori dei circoli diplomatici e governativi, in Gran Bretagna – ci informa una nota di diario di Beatrice Webb – cittadini ordinari e persino di orientamento conservatore mo¬strano «vivo interesse per il coraggio e per l'iniziativa sorprendenti e per il magnifico equipaggiamento delle forze dell'Armata rossa, per l'unico Stato sovrano in grado di contrastare la potenza pressoché mitica della Germania di Hitler». Nella stessa Germania, già tre settimane dopo l'inizio dell'operazione Barbarossa, cominciano a circolare voci che met¬tono radicalmente in dubbio la versione trionfalistica del regime. È quello che emerge dal diario di un eminente intellettuale tedesco di ori¬gine ebraica: a quanto pare, ad est «subiremmo perdite immense, avremmo sottovalutato la forza di resistenza dei russi», i quali «sarebbe¬ro inesauribili in uomini e materiale bellico».
A lungo letta come espressione di insipienza politico-militare o ad¬dirittura di cieca fiducia nei confronti del Terzo Reich, la condotta estremamente cauta di Stalin nelle settimane che precedono lo scoppio delle ostilità appare ora in una luce del tutto diversa: «II concentramen¬to delle forze della Wehrmacht lungo il confine con l'URSS, la violazione dello spazio aereo sovietico e numerose altre provocazioni avevano un unico scopo: attirare il grosso dell'Armata rossa il più vicino possibile al confine. Hitler intendeva vincere la guerra in una singola gigantesca battaglia». A sentirsi attratti dalla trappola sono persino valorosi generali che, in previsione dell'irruzione del nemico, premono per un massiccio spostamento di truppe alla frontiera: «Stalin respinse categoricamente la richiesta, insistendo sulla necessità di mantenere riserve di vasta scala a
considerevole distanza dalla linea del fronte». Più tardi, avendo preso vi¬sione dei piani strategici degli ideatori dell'operazione Barbarossa, il maresciallo Georgij K. Zukov ha riconosciuto la saggezza della linea adottata da Stalin: «Il comando di Hitler contava su uno spostamento del grosso delle nostre forze al confine con l'intenzione di circondarlo e distruggerlo».
In effetti, nei mesi che precedono l'invasione dell'URSS, discutendo coi suoi generali, il Führer osserva: «Problema dello spazio russo. L'am¬piezza infinita dello spazio rende necessaria la concentrazione in punti decisivi». Più tardi, ad operazione Barbarossa già iniziata, in una conversazione egli chiarisce ulteriormente il suo pensiero: «Nella storia mondiale ci sono state sinora solo tre battaglie di annientamento: Can¬ne, Sedan e Tannenberg. Possiamo essere orgogliosi per il fatto che due di esse sono state vittoriosamente combattute da eserciti tedeschi». Sen¬nonché, per la Germania si rivela sempre più elusiva la terza e più gran¬diosa battaglia decisiva di accerchiamento e annientamento agognata da Hitler, il quale una settimana dopo è costretto a riconoscere che l'opera¬zione Barbarossa aveva seriamente sottovalutato il nemico: «la prepara¬zione bellica dei russi dev'essere considerata fantastica». Trasparente è qui il desiderio del giocatore d'azzardo di giustificare il fallimento delle sue previsioni. E, tuttavia, a conclusioni non dissimili giunge lo studio¬so inglese di strategia militare già citato: il motivo della disfatta dei francesi risiede «non nella quantità o qualità del loro materiale bensì nella loro dottrina militare»; per di più, agisce rovinosamente lo schieramen¬to troppo avanzato dell'esercito, che «compromette gravemente la sua duttilità strategica»; un errore simile era stato commesso anche dalla Po¬lonia, favorito «dalla fierezza nazionale e dalla fiducia eccessiva dei mili¬tari». Nulla di tutto ciò si verifica in Unione Sovietica.
Più importante delle singole battaglie è il quadro d'assieme: «II si¬stema staliniano riuscì a mobilitare l'immensa maggioranza della popo¬lazione e la quasi totalità delle risorse»; in particolare, «straordinaria» fu la «capacità dei sovietici», in una situazione così difficile come quella venutasi a creare nei primi mesi di guerra, «di evacuare e poi di ricon¬vertire per la produzione militare un numero considerevole di indu¬strie». Sì, «messo in piedi due giorni dopo l'invasione tedesca, il Comi¬tato per l'evacuazione riuscì a spostare a est 1.500 grandi imprese indu¬striali, al termine di operazioni titaniche di una grande complessità lo¬gistica». Peraltro, questo processo di dislocazione era già iniziato nel¬le settimane o nei mesi che precedono l'aggressione hitleriana, a conferma ulteriore del carattere fantasioso dell'accusa lanciata da Chruscév.
C'è di più. Il gruppo dirigente sovietico aveva in qualche modo in¬tuito le modalità della guerra, che si andava profilando all'orizzonte, già al momento in cui aveva promosso l'industrializzazione del paese: con una radicale svolta rispetto alla situazione precedente, esso aveva identi¬ficato «un punto focale nella Russia asiatica», lontano e al riparo dai pre¬sumibili aggressori. In effetti, su ciò Stalin aveva insistito ripetuta¬mente e vigorosamente. 31 gennaio 1931: s'imponeva la «creazione di un'industria nuova e ben attrezzata negli Urali, in Siberia, nel Kazacha¬stan». Pochi anni dopo, il Rapporto pronunciato il 26 gennaio 1934 al XVII Congresso del Pcus aveva richiamato compiaciuto l'attenzione sul poderoso sviluppo industriale che nel frattempo si era verificato «in Asia centrale, nel Kazachastan, nelle Repubbliche dei Buriati, dei Tatari e dei Baschiri, negli Urali, nella Siberia orientale e occidentale, nell'Estremo Oriente ecc.». Le implicazioni di tutto ciò non erano sfuggite a Troc¬kij che qualche anno dopo, nell'analizzare i pericoli di guerra e il grado di preparazione dell'Unione Sovietica e nel sottolineare i risultati conse¬guiti dall'«economia pianificata» in ambito «militare», aveva osservato: «L'industrializzazione delle regioni remote, principalmente della Sibe¬ria, conferisce alle distese delle steppe e delle foreste un'importanza nuova». Solo ora i grandi spazi assumevano tutto il loro valore e ren¬devano più problematica che mai la guerra-lampo tradizionalmente agognata e preparata dallo stato maggiore tedesco.
È proprio sul terreno dell'apparato industriale edificato in previsio¬ne della guerra che il Terzo Reich è costretto a registrare le sorprese più amare, come emerge da due commenti di Hitler. 29 novembre 1941: «Com'è possibile che un popolo così primitivo possa raggiungere simili traguardi tecnici in così poco tempo?». 26 agosto 1942: «Per quanto riguarda la Russia, è incontestabile che Stalin ha elevato il tenore di vita. Il popolo russo non soffriva la fame [al momento dello scatenamento dell'operazione Barbarossa]. Nel complesso occorre riconoscere: sono state costruite officine dell'importanza delle Hermann Goering Werke là dove fino a due anni fa non esistevano che villaggi sconosciuti. Trovia¬mo linee ferroviarie che non sono indicate sulle carte».
A questo punto conviene dare la parola a tre studiosi fra loro assai diversi (l'uno russo e gli altri due occidentali). Il primo, che ha a suo tempo diretto l'Istituto sovietico di storia militare e che ha condiviso l'antistalinismo militante degli anni di Gorbacev, sembra ispirato dal-l'intenzione di riprendere e radicalizzare la requisitoria del Rapporto Chruscév. E, tuttavia, dai risultati stessi della sua ricerca egli si sente co¬stretto a formulare un giudizio assai più sfumato: senza essere uno specialista e tanto meno il genio dipinto dalla propaganda ufficiale, già ne¬gli anni che precedono lo scoppio della guerra Stalin si occupa intensa¬mente dei problemi della difesa, dell'industria della difesa e dell'econo¬mia di guerra nel suo complesso. Sì, sul piano strettamente militare, solo attraverso tentativi ed errori anche gravi e «grazie alla dura prassi della quotidiana vita militare», egli «apprende gradualmente i principi della strategia» In altri campi, però, il suo pensiero si rivela «più sviluppato di quello di molti leader militari sovietici». Grazie anche alla lunga pratica di gestione del potere politico, Stalin non perde mai di vi¬sta il ruolo centrale dell'economia di guerra, e contribuisce a rafforzare la resistenza dell'URSS col trasferimento verso l'interno delle industrie bel¬liche: «è pressoché impossibile sopravvalutare l'importanza di questa im¬presa». Grande attenzione il leader sovietico presta infine alla dimen-sione politico-morale della guerra. In questo campo egli «aveva idee del tutto fuori del comune», come dimostra la decisione «coraggiosa e lungi¬mirante», presa nonostante lo scetticismo dei suoi collaboratori, di effet¬tuare la parata militare di celebrazione dell'anniversario della Rivoluzio¬ne d'ottobre il 7 novembre 1941, in una Mosca assediata e incalzata dal nemico nazista. In sintesi, si può dire che rispetto ai militari di carriera e alla cerchia dei suoi collaboratori in generale, «Stalin mostra un pensiero più universale». Ed è un pensiero – si può aggiungere – che non tra¬scura neppure gli aspetti più minuti della vita e del morale dei soldati: in¬formato del fatto che essi erano rimasti senza sigarette, grazie anche alla sua capacità di disbrigare «un enorme carico di lavoro», «nel momento cruciale della battaglia di Stalingrado, egli [Stalin] trovò il tempo di chiamare al telefono Akaki Mgeladze, capo del partito dell'Abhasia, la regione di coltivazione del tabacco: “I nostri soldati non hanno più la possibilità di fumare! Senza sigarette il fronte non regge! "».
Nell'apprezzamento
positivo di Stalin quale leader militare ancora oltre si spingono due autori
occidentali. Se Chruscév insiste sui travol¬genti successi iniziali della
Wehrmacht, il primo dei due studiosi cui qui faccio riferimento esprime questo
medesimo dato di fatto con un linguaggio assai diverso: non è stupefacente che
«la più grande invasio¬ne nella storia militare» abbia conseguito iniziali
successi; la riscossa dell'Armata rossa dopo i colpi devastanti dell'invasione
tedesca nel giugno 1941 fu «la più grande impresa d'armi che il mondo avesse
mai visto». Il secondo studioso, docente in un'accademia militare
statu¬nitense, a partire dalla comprensione del conflitto nella prospettiva
della lunga durata e dall'attenzione riservata alle retrovie come al fron¬te e
alla dimensione economica e politica come a quella più propria¬mente militare
della guerra, parla di Stalin come di un «grande strate¬ga», anzi come del
«primo vero stratega del ventesimo secolo». È un giudizio complessivo che trova
pienamente consenziente anche l'altro studioso occidentale qui citato, la cui
tesi di fondo, sintetizzata nel ri¬svolto di copertina, individua in Stalin il
«più grande leader militare del ventesimo secolo». Si possono ovviamente discutere
o sfumare questi giudizi così lusinghieri; resta il fatto che, almeno per
quanto ri¬guarda il tema della guerra, il quadro tracciato da Chruscév ha perso
qualsiasi credibilità.
Tanto più che, al momento della prova, l'URSS si rivela assai prepa¬rata anche da un altro essenziale punto di vista. Ridiamo la parola a Goebbels che, nello spiegare le impreviste difficoltà dell'operazione Bar¬barossa, oltre che al potenziale bellico del nemico, rinvia anche ad un al¬tro fattore:
Tanto più che, al momento della prova, l'URSS si rivela assai prepa¬rata anche da un altro essenziale punto di vista. Ridiamo la parola a Goebbels che, nello spiegare le impreviste difficoltà dell'operazione Bar¬barossa, oltre che al potenziale bellico del nemico, rinvia anche ad un al¬tro fattore:
Ai
nostri uomini di fiducia e alle nostre spie era pressocché impossibile di
penetrare all'interno dell'Unione Sovietica. Essi non potevano acquisire un
quadro preciso. I bolscevichi si sono direttamente impegnati a trarci in
inganno. Di tutta una serie di armi da loro possedute, soprattutto di armi
pesanti, non abbiamo avuto alcuna idea. Esattamente il contrario di quello che
si è verificato in Francia, dove sapeva¬mo in pratica tutto e non potevamo in
alcun modo esser sorpresi.
La carenza di
«buonsenso» e le «deportazioni in massa di intere popolazioni»
Autore
nel 1913 di un libro che l'aveva consacrato come teorico della questione
nazionale, commissario del popolo alle nazionalità subito dopo la Rivoluzione
d'ottobre, per il modo come aveva svolto il suo compito Stalin si era
guadagnato il riconoscimento di personalità tra loro così diverse quali Arendt
e De Gasperi. La riflessione sulla questio¬ne nazionale era da ultimo sfociata
in un saggio sulla linguistica impe¬gnato a dimostrare che, ben lungi dal
dileguare in seguito al rovescia¬mento del potere politico di una determinata
classe sociale, la lingua di una nazione ha una notevole stabilità, così come
di una notevole stabilità gode la nazione che con essa si esprime. Anche questo
saggio aveva contribuito a consolidare la fama di Stalin quale teorico della
questione nazionale. Ancora nel 1965, pur nell'ambito di un atteggiamento di
dura condanna, Louis Althusser attribuirà a Stalin il merito di essersi opposto
alla «follia» che pretendeva «a ogni costo di fare della lingua una
sovra¬struttura» ideologica: grazie a queste «semplici paginette» — concluderà
il filosofo francese — «intravedemmo che l'uso del criterio di classe non era
senza limiti». La dissacrazione-liquidazione in cui nel 1956 si im¬pegna
Chruscév non poteva non prendere di mira, per ridicolizzarlo, il teorico e uomo
politico che aveva dedicato particolare attenzione alla questione nazionale.
Nel condannare «le deportazioni in massa di intere nazionalità», il Rapporto
segreto sentenzia:
Non occorre essere marxisti-leninisti per capire ciò: qualunque persona di buon¬senso si chiede come è possibile rendere intere nazioni responsabili di atti ostili, senza fare eccezioni per le donne, i bambini, i vecchi, i comunisti e i membri del Komsomol [la gioventù comunista] fino al punto di intraprendere contro di loro una repressione generale, gettandoli nella miseria e nella sofferenza senza altra cau¬sa che la vendetta per qualche misfatto perpetrato da individui o gruppi isolati.
Fuori discussione è l'orrore della punizione collettiva, della deportazio¬ne imposta a popolazioni sospettate di scarsa lealtà patriottica. Disgra¬ziatamente, ben lungi dal rinviare alla follia di un singolo individuo, questa pratica caratterizza in profondità la Seconda guerra dei trent'an¬ni, a cominciare dalla Russia zarista che, pur alleata dell'Occidente libe¬rale, nel corso del Primo conflitto mondiale conosce «un'ondata di de¬portazioni» di «dimensioni sconosciute in Europa», col coinvolgimento di circa un milione di persone (soprattutto di origine ebraica o germani¬ca). Di dimensioni più ridotte, ma tanto più significativa è la misura che nel corso del Secondo conflitto mondiale colpisce gli americani di origine giapponese, deportati e rinchiusi in campi di concentramento.
Oltre che al fine della rimozione di una potenziale quinta colonna, l'espulsione e deportazione di intere popolazioni può essere promossa in funzione del rifacimento o della ridefinizione della geografia politica. Nel corso della prima metà del Novecento, questa pratica infuria a livel¬lo planetario, dal Medio Oriente, dove gli ebrei appena scampati alla «soluzione finale» costringono alla fuga arabi e palestinesi, all'Asia, dove la spartizione tra India e Pakistan del gioiello dell'Impero inglese passa attraverso la «più grande migrazione forzata a livello mondiale del seco¬lo». Per restare sempre nel continente asiatico, vale la pena di dare uno sguardo a quel che avviene in una regione amministrata da una per¬sonalità o in nome di una personalità (il 14° Dalai Lama), successiva¬mente destinata a conseguire il premio Nobel per la pace e a divenire si¬nonimo di non-violenza: «Nel luglio 1949 tutti gli han residenti [da più generazioni] a Lhasa furono espulsi dal Tibet», al fine sia di «fronteggia¬re la possibilità dell'attività di una "quinta colonna"», sia di rendere più omogenea la composizione demografica.
Abbiamo a che fare con una pratica non solo messa in atto nelle più diverse aree geografiche e politico-culturali, ma in quei decenni esplici¬tamente teorizzata da personalità di grande rilievo. Nel 1938 David Ben Gurion, il futuro padre della patria in Israele, dichiara: «Sono favorevole al trasferimento forzato [degli arabi palestinesi]; non ci vedo nulla di immorale» 74. In effetti, a tale programma egli si atterrà coerentemente dieci anni dopo.
Ma qui occorre concentrare l'attenzione soprattutto sull'Europa centro-orientale, dove si verifica una tragedia rimossa, ma che è tra le più grandi del Novecento. Complessivamente, circa sedici milioni e mezzo di tedeschi furono costretti ad abbandonare le loro case e due mi-lioni e mezzo non sopravvissero alla gigantesca operazione di pulizia o di contropulizia etnica. In questo caso è possibile procedere ad un confronto diretto tra Stalin da un lato e gli statisti occidentali e filocci¬dentali dall'altro. Quale atteggiamento assunsero questi ultimi in tale circostanza? Lo analizziamo sempre a partire da una storiografia che non può essere sospettata di indulgenza nei confronti dell'Unione So¬vietica:
Fu il governo britannico che dal 1942 spinse per un generale trasferimento di po¬polazione dai territori tedeschi orientali e dai Sudeti [...]. Più in là di tutti si spinse il sottosegretario di Stato Sargent, che richiese un'indagine «se la Gran Bretagna non dovesse incoraggiare il trasferimento in Siberia dei tedeschi della Prussia orientale e dell'Alta Slesia».
Intervenendo alla Camera dei Comuni il 15 dicembre 1944 sul program¬mato «trasferimento di diversi milioni» di tedeschi, Churchill chiarì così il suo pensiero:
Per quello che siamo riusciti a capire, l'espulsione è il metodo più soddisfacente e più duraturo. Non ci sarà più un mescolamento delle popolazioni a provocare un disordine senza fine com'è avvenuto nel caso dell'Alsazia e Lorena. Sarà fatto un ta¬glio netto. Non sono allarmato dalla prospettiva della separazione tra le popolazio¬ni così come non sono allarmato dai trasferimenti su larga scala, che nelle moderne condizioni sono molto più agevoli di quanto siano mai stati nel passato.
Ai piani di deportazione aderì poi, nel giugno 1943, F. D. Roosevelt; «quasi nello stesso momento Stalin acconsentì alle pressioni di Benes per l'espulsione dei tedeschi dei Sudeti dalla Cecoslovacchia da restaura¬re». Uno storico statunitense ritiene allora di dover trarre questa conclusione:
Alla fine, sulla questione dell'espulsione dei tedeschi nella Cecoslovacchia o nella Polonia post-bellica non vi fu in pratica nessuna differenza tra politici comunisti e non comunisti: su questo tema Benes e Gottwald, Mikolajczyk e Bierut, Stalin e Churchill parlavano tutti la stessa lingua.
Già questa conclusione basterebbe a confutare la contrapposizione in bianco e nero implicita nel Rapporto Cruscév. In realtà, almeno per quanto riguarda i tedeschi dell'Europa orientale, a prendere l'iniziativa delle «deportazioni in massa di intere popolazioni» non fu Stalin; le re¬sponsabilità non si distribuirono in modo eguale. Finisce col ricono¬scerlo lo stesso storico statunitense precedentemente citato. In Cecoslo¬vacchia, Jan Masaryk espresse la convinzione secondo cui «il tedesco è senz'anima, e le parole che capisce meglio sono le raffiche di mitra». Si trattava di un atteggiamento tutt'altro che isolato: «Finanche la Chiesa cattolica ceca fece sentire la propria voce. Monsignor Bohumil Stasek, canonico di Vysehrad, dichiarò: "Dopo mille anni è giunto il momento di regolare i conti con i tedeschi, che sono malvagi e per i quali il co¬mandamento 'Ama il prossimo tuo' non si applica”» `. In queste circo¬stanze, un testimone tedesco ricorda: «Dovemmo spesso chiedere aiuto ai russi contro i cechi, cosa che fecero spesso, sempre che non si trattasse di mettere le mani addosso a una donna» `. Ma c'è di più. Diamo di nuovo la parola allo storico statunitense: «Nell'ex campo nazista di The¬resienstadt, i tedeschi internati si chiedevano cosa sarebbe successo loro se il locale comandante russo non li avesse protetti dai cechi». Un rap¬porto segreto sovietico inviato a Mosca al Comitato centrale del partito comunista riferiva delle suppliche rivolte alle truppe sovietiche perché restassero: « Se l'Armata rossa se ne va, siamo finiti". Le manifestazioni di odio per i tedeschi sono palesi. [I cechi] non li uccidono ma li tor¬mentano come fossero bestie. Li considerano degli animali». In effetti –osserva sempre lo storico che qui sto seguendo – «l'orribile trattamento inflitto dai cechi portò alla disperazione. Secondo statistiche ceche, sol¬tanto nel 1946 i tedeschi che si suicidarono furono 5.558"'. Qualcosa di analogo avvenne in Polonia. In conclusione:
I tedeschi trovarono il personale militare russo molto più umano e responsabile dei cechi o dei polacchi del posto. Occasionalmente, i russi dettero da mangiare a bambini tedeschi affamati, laddove i cechi li lasciarono morire di inedia. A volte le truppe sovietiche davano agli esausti tedeschi un passaggio sui loro veicoli durante le lunghe marce per uscire dal paese, mentre i cechi restavano a guardarli con di¬sprezzo o indifferenza.
Lo storico statunitense parla di «cechi» o di «polacchi» in generale, ma in modo non del tutto corretto, come emerge dal suo stesso racconto:
La questione dell'espulsione dei tedeschi mise i comunisti cechi — e di altri paesi —in seria difficoltà. Durante la guerra, la posizione dei comunisti, articolata da Georgi Dimitrov a Mosca, era che i tedeschi responsabili della guerra e dei suoi cri¬mini dovessero essere processati e condannati, mentre gli operai e i contadini tede¬schi andavano rieducati.
In effetti «in Cecoslovacchia furono i comunisti, una volta conquistato il potere nel febbraio 1948, a porre fine alla persecuzione delle poche mi¬noranze etniche che erano rimaste».
Contrariamente all'insinuazione di Chruscév, nel confronto coi di¬rigenti borghesi dell'Europa occidentale e centrorientale, almeno in questo caso sono Stalin e il movimento comunista da lui diretto a rive¬larsi meno sprovvisti di «buonsenso».
Ciò non avviene casualmente. Se, sul finire della guerra, F. D. Roo¬sevelt dichiara di essere «più che mai assetato di sangue verso i tedeschi» per le atrocità da loro commesse e giunge persino ad accarezzare, per qualche tempo, l'idea della «castrazione» di un popolo così perverso, ben diversamente si atteggia Stalin che già subito dopo lo scatenamento dell'operazione Barbarossa dichiara che la resistenza sovietica può con¬tare sull'appoggio di «tutti i migliori uomini della Germania» e persino del «popolo tedesco asservito dai caporioni hitleriani» . Particolar¬mente solenne è la presa di posizione dell'agosto del 1942:
Sarebbe ridicolo identificare la cricca hitleriana col popolo tedesco, con lo Stato te¬desco. Le esperienze della storia dimostrano che gli Hitler vanno e vengono, ma che il popolo tedesco, lo Stato tedesco rimane. La forza dell'Armata rossa risiede nel fatto che essa non nutre e non può nutrire alcun odio razziale contro altri po-poli e quindi neppure contro il popolo tedesco; essa è educata nello spirito dell'eguaglianza di tutti i popoli e di tutte le razze, nello spirito del rispetto dei diritti de¬gli altri popoli.
Persino un anticomunista inflessibile qual è Ernst Nolte è costretto a ri¬conoscere che l'atteggiamento assunto dall'Unione Sovietica nei confronti del popolo tedesco non presenta quei toni razzistici, riscontrabili talvolta nelle potenze occidentali ". Per concludere su questo punto: se non equamente distribuita, la carenza di "buonsenso" era ben diffusa tra i leader politici del Novecento.
Fin qui mi sono occupato delle deportazioni provocate dalla guerra e dal pericolo di guerra ovvero dal rifacimento e dalla ridefinizione della geografia politica. Almeno sino agli anni quaranta, negli Stati Uniti continuano invece ad infuriare le deportazioni messe in atto dai centri urbani che vogliono essere, come ammoniscono i cartelli collocati al loro ingresso, per whites only. Oltre agli afroamericani, ad essere colpiti sono anche i messicani, riclassificati come non bianchi in base ad un censimento del 1930: sono così deportati in Messico «migliaia di lavora¬tori e le loro famiglie, compresi molti americani di origine messicana».
Le misure di espulsione e deportazione dalle città che vogliono essere «solo per bianchi» ovvero «solo per caucasici» non risparmiano neppure gli ebrei.
Il Rapporto segreto dipinge Stalin come un tiranno così privo del sen¬so della realtà che, nel prendere misure collettive contro determinati gruppi etnici, non esita a colpire gli innocenti e gli stessi compagni di partito. Vien fatto di pensare alla vicenda degli esuli tedeschi (per lo più nemici dichiarati di Hitler) che, subito dopo lo scoppio della guerra con la Germania, sono rinchiusi in blocco nei campi di concentramento francesi. Ma è inutile voler ricercare uno sforzo di analisi comparata nel discorso di Chruscév.
Esso mira a rovesciare nel suo contrario due motivi sino a quel mo¬mento diffusi non solo nella propaganda ufficiale ma anche nella pubblicistica e nell'opinione pubblica internazionale: il grande condottiero che aveva contribuito in modo decisivo all'annientamento del Terzo Reich si trasforma così in un rovinoso dilettante che a stento riesce ad orientarsi sul mappamondo; l'eminente teorico della questione naziona¬le proprio in questo campo si rivela sprovvisto del più elementare «buonsenso». I riconoscimenti sino a quel momento tributati a Stalin sono messi tutti sul conto di un culto della personalità che ora si tratta di liquidare una volta per sempre.
Il culto della personalità in Russia da Kerenskij a Stalin
Non occorre essere marxisti-leninisti per capire ciò: qualunque persona di buon¬senso si chiede come è possibile rendere intere nazioni responsabili di atti ostili, senza fare eccezioni per le donne, i bambini, i vecchi, i comunisti e i membri del Komsomol [la gioventù comunista] fino al punto di intraprendere contro di loro una repressione generale, gettandoli nella miseria e nella sofferenza senza altra cau¬sa che la vendetta per qualche misfatto perpetrato da individui o gruppi isolati.
Fuori discussione è l'orrore della punizione collettiva, della deportazio¬ne imposta a popolazioni sospettate di scarsa lealtà patriottica. Disgra¬ziatamente, ben lungi dal rinviare alla follia di un singolo individuo, questa pratica caratterizza in profondità la Seconda guerra dei trent'an¬ni, a cominciare dalla Russia zarista che, pur alleata dell'Occidente libe¬rale, nel corso del Primo conflitto mondiale conosce «un'ondata di de¬portazioni» di «dimensioni sconosciute in Europa», col coinvolgimento di circa un milione di persone (soprattutto di origine ebraica o germani¬ca). Di dimensioni più ridotte, ma tanto più significativa è la misura che nel corso del Secondo conflitto mondiale colpisce gli americani di origine giapponese, deportati e rinchiusi in campi di concentramento.
Oltre che al fine della rimozione di una potenziale quinta colonna, l'espulsione e deportazione di intere popolazioni può essere promossa in funzione del rifacimento o della ridefinizione della geografia politica. Nel corso della prima metà del Novecento, questa pratica infuria a livel¬lo planetario, dal Medio Oriente, dove gli ebrei appena scampati alla «soluzione finale» costringono alla fuga arabi e palestinesi, all'Asia, dove la spartizione tra India e Pakistan del gioiello dell'Impero inglese passa attraverso la «più grande migrazione forzata a livello mondiale del seco¬lo». Per restare sempre nel continente asiatico, vale la pena di dare uno sguardo a quel che avviene in una regione amministrata da una per¬sonalità o in nome di una personalità (il 14° Dalai Lama), successiva¬mente destinata a conseguire il premio Nobel per la pace e a divenire si¬nonimo di non-violenza: «Nel luglio 1949 tutti gli han residenti [da più generazioni] a Lhasa furono espulsi dal Tibet», al fine sia di «fronteggia¬re la possibilità dell'attività di una "quinta colonna"», sia di rendere più omogenea la composizione demografica.
Abbiamo a che fare con una pratica non solo messa in atto nelle più diverse aree geografiche e politico-culturali, ma in quei decenni esplici¬tamente teorizzata da personalità di grande rilievo. Nel 1938 David Ben Gurion, il futuro padre della patria in Israele, dichiara: «Sono favorevole al trasferimento forzato [degli arabi palestinesi]; non ci vedo nulla di immorale» 74. In effetti, a tale programma egli si atterrà coerentemente dieci anni dopo.
Ma qui occorre concentrare l'attenzione soprattutto sull'Europa centro-orientale, dove si verifica una tragedia rimossa, ma che è tra le più grandi del Novecento. Complessivamente, circa sedici milioni e mezzo di tedeschi furono costretti ad abbandonare le loro case e due mi-lioni e mezzo non sopravvissero alla gigantesca operazione di pulizia o di contropulizia etnica. In questo caso è possibile procedere ad un confronto diretto tra Stalin da un lato e gli statisti occidentali e filocci¬dentali dall'altro. Quale atteggiamento assunsero questi ultimi in tale circostanza? Lo analizziamo sempre a partire da una storiografia che non può essere sospettata di indulgenza nei confronti dell'Unione So¬vietica:
Fu il governo britannico che dal 1942 spinse per un generale trasferimento di po¬polazione dai territori tedeschi orientali e dai Sudeti [...]. Più in là di tutti si spinse il sottosegretario di Stato Sargent, che richiese un'indagine «se la Gran Bretagna non dovesse incoraggiare il trasferimento in Siberia dei tedeschi della Prussia orientale e dell'Alta Slesia».
Intervenendo alla Camera dei Comuni il 15 dicembre 1944 sul program¬mato «trasferimento di diversi milioni» di tedeschi, Churchill chiarì così il suo pensiero:
Per quello che siamo riusciti a capire, l'espulsione è il metodo più soddisfacente e più duraturo. Non ci sarà più un mescolamento delle popolazioni a provocare un disordine senza fine com'è avvenuto nel caso dell'Alsazia e Lorena. Sarà fatto un ta¬glio netto. Non sono allarmato dalla prospettiva della separazione tra le popolazio¬ni così come non sono allarmato dai trasferimenti su larga scala, che nelle moderne condizioni sono molto più agevoli di quanto siano mai stati nel passato.
Ai piani di deportazione aderì poi, nel giugno 1943, F. D. Roosevelt; «quasi nello stesso momento Stalin acconsentì alle pressioni di Benes per l'espulsione dei tedeschi dei Sudeti dalla Cecoslovacchia da restaura¬re». Uno storico statunitense ritiene allora di dover trarre questa conclusione:
Alla fine, sulla questione dell'espulsione dei tedeschi nella Cecoslovacchia o nella Polonia post-bellica non vi fu in pratica nessuna differenza tra politici comunisti e non comunisti: su questo tema Benes e Gottwald, Mikolajczyk e Bierut, Stalin e Churchill parlavano tutti la stessa lingua.
Già questa conclusione basterebbe a confutare la contrapposizione in bianco e nero implicita nel Rapporto Cruscév. In realtà, almeno per quanto riguarda i tedeschi dell'Europa orientale, a prendere l'iniziativa delle «deportazioni in massa di intere popolazioni» non fu Stalin; le re¬sponsabilità non si distribuirono in modo eguale. Finisce col ricono¬scerlo lo stesso storico statunitense precedentemente citato. In Cecoslo¬vacchia, Jan Masaryk espresse la convinzione secondo cui «il tedesco è senz'anima, e le parole che capisce meglio sono le raffiche di mitra». Si trattava di un atteggiamento tutt'altro che isolato: «Finanche la Chiesa cattolica ceca fece sentire la propria voce. Monsignor Bohumil Stasek, canonico di Vysehrad, dichiarò: "Dopo mille anni è giunto il momento di regolare i conti con i tedeschi, che sono malvagi e per i quali il co¬mandamento 'Ama il prossimo tuo' non si applica”» `. In queste circo¬stanze, un testimone tedesco ricorda: «Dovemmo spesso chiedere aiuto ai russi contro i cechi, cosa che fecero spesso, sempre che non si trattasse di mettere le mani addosso a una donna» `. Ma c'è di più. Diamo di nuovo la parola allo storico statunitense: «Nell'ex campo nazista di The¬resienstadt, i tedeschi internati si chiedevano cosa sarebbe successo loro se il locale comandante russo non li avesse protetti dai cechi». Un rap¬porto segreto sovietico inviato a Mosca al Comitato centrale del partito comunista riferiva delle suppliche rivolte alle truppe sovietiche perché restassero: « Se l'Armata rossa se ne va, siamo finiti". Le manifestazioni di odio per i tedeschi sono palesi. [I cechi] non li uccidono ma li tor¬mentano come fossero bestie. Li considerano degli animali». In effetti –osserva sempre lo storico che qui sto seguendo – «l'orribile trattamento inflitto dai cechi portò alla disperazione. Secondo statistiche ceche, sol¬tanto nel 1946 i tedeschi che si suicidarono furono 5.558"'. Qualcosa di analogo avvenne in Polonia. In conclusione:
I tedeschi trovarono il personale militare russo molto più umano e responsabile dei cechi o dei polacchi del posto. Occasionalmente, i russi dettero da mangiare a bambini tedeschi affamati, laddove i cechi li lasciarono morire di inedia. A volte le truppe sovietiche davano agli esausti tedeschi un passaggio sui loro veicoli durante le lunghe marce per uscire dal paese, mentre i cechi restavano a guardarli con di¬sprezzo o indifferenza.
Lo storico statunitense parla di «cechi» o di «polacchi» in generale, ma in modo non del tutto corretto, come emerge dal suo stesso racconto:
La questione dell'espulsione dei tedeschi mise i comunisti cechi — e di altri paesi —in seria difficoltà. Durante la guerra, la posizione dei comunisti, articolata da Georgi Dimitrov a Mosca, era che i tedeschi responsabili della guerra e dei suoi cri¬mini dovessero essere processati e condannati, mentre gli operai e i contadini tede¬schi andavano rieducati.
In effetti «in Cecoslovacchia furono i comunisti, una volta conquistato il potere nel febbraio 1948, a porre fine alla persecuzione delle poche mi¬noranze etniche che erano rimaste».
Contrariamente all'insinuazione di Chruscév, nel confronto coi di¬rigenti borghesi dell'Europa occidentale e centrorientale, almeno in questo caso sono Stalin e il movimento comunista da lui diretto a rive¬larsi meno sprovvisti di «buonsenso».
Ciò non avviene casualmente. Se, sul finire della guerra, F. D. Roo¬sevelt dichiara di essere «più che mai assetato di sangue verso i tedeschi» per le atrocità da loro commesse e giunge persino ad accarezzare, per qualche tempo, l'idea della «castrazione» di un popolo così perverso, ben diversamente si atteggia Stalin che già subito dopo lo scatenamento dell'operazione Barbarossa dichiara che la resistenza sovietica può con¬tare sull'appoggio di «tutti i migliori uomini della Germania» e persino del «popolo tedesco asservito dai caporioni hitleriani» . Particolar¬mente solenne è la presa di posizione dell'agosto del 1942:
Sarebbe ridicolo identificare la cricca hitleriana col popolo tedesco, con lo Stato te¬desco. Le esperienze della storia dimostrano che gli Hitler vanno e vengono, ma che il popolo tedesco, lo Stato tedesco rimane. La forza dell'Armata rossa risiede nel fatto che essa non nutre e non può nutrire alcun odio razziale contro altri po-poli e quindi neppure contro il popolo tedesco; essa è educata nello spirito dell'eguaglianza di tutti i popoli e di tutte le razze, nello spirito del rispetto dei diritti de¬gli altri popoli.
Persino un anticomunista inflessibile qual è Ernst Nolte è costretto a ri¬conoscere che l'atteggiamento assunto dall'Unione Sovietica nei confronti del popolo tedesco non presenta quei toni razzistici, riscontrabili talvolta nelle potenze occidentali ". Per concludere su questo punto: se non equamente distribuita, la carenza di "buonsenso" era ben diffusa tra i leader politici del Novecento.
Fin qui mi sono occupato delle deportazioni provocate dalla guerra e dal pericolo di guerra ovvero dal rifacimento e dalla ridefinizione della geografia politica. Almeno sino agli anni quaranta, negli Stati Uniti continuano invece ad infuriare le deportazioni messe in atto dai centri urbani che vogliono essere, come ammoniscono i cartelli collocati al loro ingresso, per whites only. Oltre agli afroamericani, ad essere colpiti sono anche i messicani, riclassificati come non bianchi in base ad un censimento del 1930: sono così deportati in Messico «migliaia di lavora¬tori e le loro famiglie, compresi molti americani di origine messicana».
Le misure di espulsione e deportazione dalle città che vogliono essere «solo per bianchi» ovvero «solo per caucasici» non risparmiano neppure gli ebrei.
Il Rapporto segreto dipinge Stalin come un tiranno così privo del sen¬so della realtà che, nel prendere misure collettive contro determinati gruppi etnici, non esita a colpire gli innocenti e gli stessi compagni di partito. Vien fatto di pensare alla vicenda degli esuli tedeschi (per lo più nemici dichiarati di Hitler) che, subito dopo lo scoppio della guerra con la Germania, sono rinchiusi in blocco nei campi di concentramento francesi. Ma è inutile voler ricercare uno sforzo di analisi comparata nel discorso di Chruscév.
Esso mira a rovesciare nel suo contrario due motivi sino a quel mo¬mento diffusi non solo nella propaganda ufficiale ma anche nella pubblicistica e nell'opinione pubblica internazionale: il grande condottiero che aveva contribuito in modo decisivo all'annientamento del Terzo Reich si trasforma così in un rovinoso dilettante che a stento riesce ad orientarsi sul mappamondo; l'eminente teorico della questione naziona¬le proprio in questo campo si rivela sprovvisto del più elementare «buonsenso». I riconoscimenti sino a quel momento tributati a Stalin sono messi tutti sul conto di un culto della personalità che ora si tratta di liquidare una volta per sempre.
Il culto della personalità in Russia da Kerenskij a Stalin
La
denuncia del culto della personalità è il pezzo forte di Chruscév. Nel suo
Rapporto è però assente una domanda che pure dovrebbe essere d'obbligo: abbiamo
a che fare con la vanità e il narcisismo di un singolo leader politico, oppure
con un fenomeno di carattere più generale che affonda le sue radici in un
contesto oggettivo determinato? Può essere interessante leggere le osservazioni
fatte da Bucharin mentre negli USA fervono i preparativi per l'intervento nella
Prima guerra mondiale:
Perché la macchina statale sia più preparata ai compiti militari, si trasforma da sé in una organizzazione militare, al cui comando c'è un dittatore. Questo dittatore è il presidente Wilson. Gli sono stati concessi poteri eccezionali. Ha un potere quasi assoluto. E si cerca di installare nel popolo sentimenti servili per il "grande presi¬dente” come nell'antica Bisanzio dove avevano divinizzato il proprio monarca.
In situazioni di crisi acuta la personalizzazione del potere tende a intrec¬ciarsi con la trasfigurazione del leader che lo detiene. Allorché nel di¬cembre 1918 mette piede in Francia, il presidente americano vittorioso è acclamato come il Salvatore e i suoi quattordici punti sono paragonati al Discorso della Montagna.
Danno soprattutto da pensare i processi politici che si verificano ne¬gli Stati Uniti nel periodo che va dalla Grande crisi alla Seconda guerra mondiale. Asceso alla presidenza con la promessa di porre rimedio ad una situazione economico-sociale assai preoccupante, F. D. Roosevelt è eletto per quattro mandati consecutivi (anche se muore all'inizio del quarto): un caso unico nella storia del suo paese. Al di là della lunga du¬rata di questa presidenza, fuori del comune sono anche le attese e le spe¬ranze che la circondano. Personalità autorevoli invocano un «dittatore nazionale» e invitano il neopresidente a dar prova di tutta la sua energia: «Diventa un tiranno, un despota, un vero monarca. Durante la Guerra mondiale noi prendemmo la nostra Costituzione, la mettemmo da par¬te finché la guerra non fu finita». La permanenza dello stato d'eccezione esige che non ci si lasci inceppare da eccessivi scrupoli legalitari. Il nuo¬vo leader della nazione è chiamato ad essere ed è già definito «una perso¬na provvidenziale», ovvero, secondo le parole del cardinale O'Connell, «un uomo mandato da Dio». La gente della strada scrive e si rivolge a F. D. Roosevelt in termini ancora più enfatici, dichiarando di guardare a lui «quasi come si guarda a Dio» e di sperare di poterlo un giorno collo¬care «nel Pantheon degli immortali, accanto a Gesù». Invitato a comportarsi da dittatore e uomo della Provvidenza, il neopresidente fa lar¬ghissimo uso del suo potere esecutivo già nel primo giorno o nelle prime ore del suo mandato. Nel suo messaggio inaugurale egli esige «un largo potere dell'Esecutivo L.] tanto grande quanto sarebbe quello concesso¬mi se fossimo realmente invasi da un nemico straniero». Con lo scop¬pio delle ostilità in Europa, prima ancora di Pearl Harbor, F. D. Roose¬velt comincia di sua iniziativa a trascinare il paese in guerra a fianco del¬l'Inghilterra; in seguito, con un ordine esecutivo emanato in modo so¬vrano, impone la reclusione in campi di concentramento di tutti i citta¬dini americani di origine giapponese, comprese donne e bambini. È una presidenza che, se per un verso gode di una diffusa devozione popolare, per un altro verso fa gridare al pericolo «totalitario» (totalitarian): ciò av¬viene in occasione della Grande crisi (allorché a pronunciare l'atto d'ac¬cusa è in particolare l'ex presidente Hoover) e soprattutto nei mesi che precedono l'intervento nel Secondo conflitto mondiale (allorché il sena¬tore Burton K. Wheeler accusa F. D. Roosevelt di esercitare un «potere dittatoriale» e di promuovere una «forma totalitaria di governo»). Al¬meno dal punto di vista degli avversari del presidente, totalitarismo e culto della personalità avevano attraversato l'Atlantico.
Certo, il fenomeno che qui stiamo indagando (la personalizzazione del potere e il culto della personalità ad essa connesso) si presenta solo in forma embrionale nella Repubblica nordamericana, protetta dall'o¬ceano da ogni tentativo di invasione e con alle spalle una tradizione po¬litica ben diversa da quella della Russia. È su questo paese che si deve concentrare l'attenzione. Vediamo cosa avviene tra febbraio e ottobre 1917, e dunque prima dell'ascesa al potere dei bolscevichi. Spinto sì dalla sua vanità personale ma anche dal desiderio di stabilizzare la situazione, ecco Kerenskij «modellarsi a Napoleone»: passa in rassegna le truppe «con il braccio infilato nel davanti della giubba»; d'altro canto, «sullo scrittoio del suo studio al ministero della Guerra campeggiava un busto dell'imperatore dei francesi». I risultati di questa messa in scena non tar¬dano a manifestarsi: fioriscono le poesie che rendono omaggio a Keren¬skij come al novello Napoleone. Alla vigilia dell'offensiva d'estate, che avrebbe dovuto definitivamente risollevare le sorti dell'esercito rus¬so, il culto riservato a Kerenskij (in certi ristretti circoli) raggiunge il culmine:
Ovunque veniva acclamato come un eroe, i soldati se lo issavano sulle spalle, lo tempestavano di fiori, gli si gettavano ai piedi. Un'infermiera inglese ebbe modo di assistere sbalordita alla scena di uomini di truppa che «baciavano lui, la sua auto e il terreno su cui poggiava i piedi. Molti erano caduti in ginocchio e pregavano, altri piangevano.
Come si vede, non ha molto senso spiegare, come fa Chruscév, con il narcisismo di Stalin la forma esaltata che, a partire da un certo momen¬to, il culto della personalità assume in URSS. In realtà, quando Kagano¬vic gli propone di sostituire la dizione di marxismo-leninismo con quel¬la di marxismo-leninismo-stalinismo, il leader a cui è rivolto tale omag¬gio risponde: «Vuoi paragonare il cazzo con la torre dei pompieri». Almeno se messo a confronto con Kerenskij, Stalin appare più modesto. Lo conferma l'atteggiamento da lui assunto a conclusione di una guerra vinta realmente e non soltanto nell'immaginazione, come nel caso del dirigente menscevico amante delle pose napoleoniche. Subito dopo la parata della vittoria, un gruppo di marescialli prende contatto con Mo-lotov e Malenkov: essi propongono di solennizzare il trionfo conseguito nel corso della Grande guerra patriottica, conferendo il titolo di «eroe dell'Unione Sovietica» a Stalin, il quale però declina l'offerta. Dal¬l'enfasi retorica il leader sovietico rifugge anche in occasione della Con¬ferenza di Potsdam: «Sia Churchill che Truman si presero il tempo di passeggiare tra le rovine di Berlino; Stalin non mostrò tale interesse. Senza far rumore, arrivò col treno, ordinando persino a Zukov di can¬cellare qualsiasi eventuale piano di dargli il benvenuto con una banda militare e una guardia d'onore». Quattro anni dopo, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, si svolge al Cremlino un colloquio che vale la pena di riportare:
Egli [Stalin] convoca Malenkov e lo ammonisce: «Non si faccia venire in testa di onorarmi di nuovo con una "stella"». «Ma, compagno Stalin, un tale anniversario! Il popolo non capirebbe.» «Non si richiami al popolo. Non ho l'intenzione di liti¬gare. Nessuna iniziativa personale! Mi ha capito?» «Ovviamente, compagno Stalin, ma i membri del politbjuro sono dell'opinione...» Stalin interrompe Malenkov e dichiara che la questione è chiusa.
Naturalmente, si può dire che nelle circostanze qui riportate gioca un ruolo più o meno grande il calcolo politico (e sarebbe ben strano che non lo giocasse); è un fatto, però, che la vanità personale non prende il sopravvento. Tanto meno essa prende il sopravvento allorché sono in gioco decisioni vitali di carattere politico o militare: nel corso della Se¬conda guerra mondiale Stalin invita i suoi interlocutori ad esprimersi senza giri di parole, discute animatamente e litiga persino con Molotov, che a sua volta, pur guardandosi bene dal mettere in discussione la ge¬rarchia, continua a tener fermo alla sua opinione. A giudicare dalla testi¬monianza dell'ammiraglio Nikolai Kusnezov, il leader supremo «ap¬prezzava in modo particolare quei compagni che ragionavano con la loro testa e non esitavano ad esprimere il loro punto di vista senza compromessi».
Interessato com'è ad additare in Stalin il responsabile unico di tutte le catastrofi abbattutesi sull'URSS, ben lungi dal liquidare il culto della personalità, Chruscév si limita a trasformarlo in un culto negativo. Re¬sta ferma la visione in base alla quale in principio erat Stalin! Anche nel¬l'affrontare il capitolo più tragico della storia dell'Unione Sovietica (il terrore e le purghe sanguinose, che infuriano su larga scala e non rispar¬miano in alcun modo il partito comunista), il Rapporto segreto non ha dubbi: è un orrore da mettere sul conto pressoché esclusivo di un indivi¬duo assetato di potere e posseduto da una paranoia sanguinaria.
Perché la macchina statale sia più preparata ai compiti militari, si trasforma da sé in una organizzazione militare, al cui comando c'è un dittatore. Questo dittatore è il presidente Wilson. Gli sono stati concessi poteri eccezionali. Ha un potere quasi assoluto. E si cerca di installare nel popolo sentimenti servili per il "grande presi¬dente” come nell'antica Bisanzio dove avevano divinizzato il proprio monarca.
In situazioni di crisi acuta la personalizzazione del potere tende a intrec¬ciarsi con la trasfigurazione del leader che lo detiene. Allorché nel di¬cembre 1918 mette piede in Francia, il presidente americano vittorioso è acclamato come il Salvatore e i suoi quattordici punti sono paragonati al Discorso della Montagna.
Danno soprattutto da pensare i processi politici che si verificano ne¬gli Stati Uniti nel periodo che va dalla Grande crisi alla Seconda guerra mondiale. Asceso alla presidenza con la promessa di porre rimedio ad una situazione economico-sociale assai preoccupante, F. D. Roosevelt è eletto per quattro mandati consecutivi (anche se muore all'inizio del quarto): un caso unico nella storia del suo paese. Al di là della lunga du¬rata di questa presidenza, fuori del comune sono anche le attese e le spe¬ranze che la circondano. Personalità autorevoli invocano un «dittatore nazionale» e invitano il neopresidente a dar prova di tutta la sua energia: «Diventa un tiranno, un despota, un vero monarca. Durante la Guerra mondiale noi prendemmo la nostra Costituzione, la mettemmo da par¬te finché la guerra non fu finita». La permanenza dello stato d'eccezione esige che non ci si lasci inceppare da eccessivi scrupoli legalitari. Il nuo¬vo leader della nazione è chiamato ad essere ed è già definito «una perso¬na provvidenziale», ovvero, secondo le parole del cardinale O'Connell, «un uomo mandato da Dio». La gente della strada scrive e si rivolge a F. D. Roosevelt in termini ancora più enfatici, dichiarando di guardare a lui «quasi come si guarda a Dio» e di sperare di poterlo un giorno collo¬care «nel Pantheon degli immortali, accanto a Gesù». Invitato a comportarsi da dittatore e uomo della Provvidenza, il neopresidente fa lar¬ghissimo uso del suo potere esecutivo già nel primo giorno o nelle prime ore del suo mandato. Nel suo messaggio inaugurale egli esige «un largo potere dell'Esecutivo L.] tanto grande quanto sarebbe quello concesso¬mi se fossimo realmente invasi da un nemico straniero». Con lo scop¬pio delle ostilità in Europa, prima ancora di Pearl Harbor, F. D. Roose¬velt comincia di sua iniziativa a trascinare il paese in guerra a fianco del¬l'Inghilterra; in seguito, con un ordine esecutivo emanato in modo so¬vrano, impone la reclusione in campi di concentramento di tutti i citta¬dini americani di origine giapponese, comprese donne e bambini. È una presidenza che, se per un verso gode di una diffusa devozione popolare, per un altro verso fa gridare al pericolo «totalitario» (totalitarian): ciò av¬viene in occasione della Grande crisi (allorché a pronunciare l'atto d'ac¬cusa è in particolare l'ex presidente Hoover) e soprattutto nei mesi che precedono l'intervento nel Secondo conflitto mondiale (allorché il sena¬tore Burton K. Wheeler accusa F. D. Roosevelt di esercitare un «potere dittatoriale» e di promuovere una «forma totalitaria di governo»). Al¬meno dal punto di vista degli avversari del presidente, totalitarismo e culto della personalità avevano attraversato l'Atlantico.
Certo, il fenomeno che qui stiamo indagando (la personalizzazione del potere e il culto della personalità ad essa connesso) si presenta solo in forma embrionale nella Repubblica nordamericana, protetta dall'o¬ceano da ogni tentativo di invasione e con alle spalle una tradizione po¬litica ben diversa da quella della Russia. È su questo paese che si deve concentrare l'attenzione. Vediamo cosa avviene tra febbraio e ottobre 1917, e dunque prima dell'ascesa al potere dei bolscevichi. Spinto sì dalla sua vanità personale ma anche dal desiderio di stabilizzare la situazione, ecco Kerenskij «modellarsi a Napoleone»: passa in rassegna le truppe «con il braccio infilato nel davanti della giubba»; d'altro canto, «sullo scrittoio del suo studio al ministero della Guerra campeggiava un busto dell'imperatore dei francesi». I risultati di questa messa in scena non tar¬dano a manifestarsi: fioriscono le poesie che rendono omaggio a Keren¬skij come al novello Napoleone. Alla vigilia dell'offensiva d'estate, che avrebbe dovuto definitivamente risollevare le sorti dell'esercito rus¬so, il culto riservato a Kerenskij (in certi ristretti circoli) raggiunge il culmine:
Ovunque veniva acclamato come un eroe, i soldati se lo issavano sulle spalle, lo tempestavano di fiori, gli si gettavano ai piedi. Un'infermiera inglese ebbe modo di assistere sbalordita alla scena di uomini di truppa che «baciavano lui, la sua auto e il terreno su cui poggiava i piedi. Molti erano caduti in ginocchio e pregavano, altri piangevano.
Come si vede, non ha molto senso spiegare, come fa Chruscév, con il narcisismo di Stalin la forma esaltata che, a partire da un certo momen¬to, il culto della personalità assume in URSS. In realtà, quando Kagano¬vic gli propone di sostituire la dizione di marxismo-leninismo con quel¬la di marxismo-leninismo-stalinismo, il leader a cui è rivolto tale omag¬gio risponde: «Vuoi paragonare il cazzo con la torre dei pompieri». Almeno se messo a confronto con Kerenskij, Stalin appare più modesto. Lo conferma l'atteggiamento da lui assunto a conclusione di una guerra vinta realmente e non soltanto nell'immaginazione, come nel caso del dirigente menscevico amante delle pose napoleoniche. Subito dopo la parata della vittoria, un gruppo di marescialli prende contatto con Mo-lotov e Malenkov: essi propongono di solennizzare il trionfo conseguito nel corso della Grande guerra patriottica, conferendo il titolo di «eroe dell'Unione Sovietica» a Stalin, il quale però declina l'offerta. Dal¬l'enfasi retorica il leader sovietico rifugge anche in occasione della Con¬ferenza di Potsdam: «Sia Churchill che Truman si presero il tempo di passeggiare tra le rovine di Berlino; Stalin non mostrò tale interesse. Senza far rumore, arrivò col treno, ordinando persino a Zukov di can¬cellare qualsiasi eventuale piano di dargli il benvenuto con una banda militare e una guardia d'onore». Quattro anni dopo, alla vigilia del suo settantesimo compleanno, si svolge al Cremlino un colloquio che vale la pena di riportare:
Egli [Stalin] convoca Malenkov e lo ammonisce: «Non si faccia venire in testa di onorarmi di nuovo con una "stella"». «Ma, compagno Stalin, un tale anniversario! Il popolo non capirebbe.» «Non si richiami al popolo. Non ho l'intenzione di liti¬gare. Nessuna iniziativa personale! Mi ha capito?» «Ovviamente, compagno Stalin, ma i membri del politbjuro sono dell'opinione...» Stalin interrompe Malenkov e dichiara che la questione è chiusa.
Naturalmente, si può dire che nelle circostanze qui riportate gioca un ruolo più o meno grande il calcolo politico (e sarebbe ben strano che non lo giocasse); è un fatto, però, che la vanità personale non prende il sopravvento. Tanto meno essa prende il sopravvento allorché sono in gioco decisioni vitali di carattere politico o militare: nel corso della Se¬conda guerra mondiale Stalin invita i suoi interlocutori ad esprimersi senza giri di parole, discute animatamente e litiga persino con Molotov, che a sua volta, pur guardandosi bene dal mettere in discussione la ge¬rarchia, continua a tener fermo alla sua opinione. A giudicare dalla testi¬monianza dell'ammiraglio Nikolai Kusnezov, il leader supremo «ap¬prezzava in modo particolare quei compagni che ragionavano con la loro testa e non esitavano ad esprimere il loro punto di vista senza compromessi».
Interessato com'è ad additare in Stalin il responsabile unico di tutte le catastrofi abbattutesi sull'URSS, ben lungi dal liquidare il culto della personalità, Chruscév si limita a trasformarlo in un culto negativo. Re¬sta ferma la visione in base alla quale in principio erat Stalin! Anche nel¬l'affrontare il capitolo più tragico della storia dell'Unione Sovietica (il terrore e le purghe sanguinose, che infuriano su larga scala e non rispar¬miano in alcun modo il partito comunista), il Rapporto segreto non ha dubbi: è un orrore da mettere sul conto pressoché esclusivo di un indivi¬duo assetato di potere e posseduto da una paranoia sanguinaria.
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