Ispirati
per tempo dall'articolo di Mauro su “Repubblica”, gli anticomunisti uniti per
calunniare il socialismo e Stalin
“Il Giornale” dei Berlusconi e “Il
Manifesto” trotzkista celebrano la controrivoluzione ungherese
“Il Fatto quotidiano” di Travaglio si
accoda con un articolo di D'Esposito e un'intervista a Occhetto
Al
coro anticomunista si è aggiunta Rifondazione trotzkista di Ferrero
Dopo l'articolo dell'ex direttore de La
Repubblica, Ezio Mauro, che aveva per tempo preparato loro il terreno,
altri giornali borghesi sono scesi in campo per celebrare la controrivoluzione
ungherese e calunniare Stalin e il socialismo, cogliendo l'occasione del 60°
anniversario della manifestazione studentesca di Budapest del 23 ottobre 1956,
che diede il via a quel tentativo di colpo di Stato anticomunista e
antisovietico. Ed è significativo che in questa celebrazione, in compagnia del
quotidiano di De Benedetti e Scalfari, organo ufficioso di Renzi e leader dei
media anticomunisti, si ritrovino giornali tanto della destra, come il
berlusconiano Il Giornale, quanto della “sinistra” borghese come Il
Fatto Quotidiano, spalla a spalla con i trotzkisti de Il Manifesto e
di Rifondazione trotzkista di Paolo Ferrero.
Il Manifesto segue addirittura pedissequamente l'imbeccata del liberale anticomunista
Mauro, con una sorta di articolo-fotocopia della sua recensione, pubblicata su La
Repubblica del 19 settembre, alla biografia di Sandor Kopacsi, l'ex
questore di Budapest che passò dalla parte dei controrivoluzionari e collaborò
col governo del rinnegato Imre Nagy. L'unica differenza, in questo articolo
firmato da Valentina Parisi, è che rispetto a quello di Mauro si insiste ancor
di più sulle “origini proletarie” e sul passato di combattente antifascista e
comunista dell'autore, che si rifiutò di far sparare sui rivoltosi e nei giorni
successivi finì per passare dalla loro parte. Questo nel chiaro quanto inutile
tentativo di dimostrare che la controrivoluzione ungherese sarebbe stata
un'insurrezione popolare, nazionale e perfino di “sinistra”, condotta da operai
e masse popolari e guidata da “comunisti in buona fede” come Nagy e lo stesso
Kopacsi, contro il dispotismo staliniano e la dominazione dell'Unione
sovietica, per conquistare la democrazia e l'indipendenza nazionale.
La tesi trotzkista della “rivolta
democratica e riformista”
“Lungi dall'aver istigato di persona la folla che il 23
ottobre nella piazza antistante il Parlamento aveva scandito per ore il suo
nome, Nagy accettò – più che altro per senso di responsabilità – il gravoso
compito di traghettare il proprio paese fuori dal Patto di Varsavia e verso
quelle riforme democratiche cui un decennio dopo in Cecoslovacchia sarebbe
stata assegnata l'etichetta di 'socialismo dal volto umano'”, scrive infatti
Parisi sposando la tesi della “rivoluzione democratica e riformista”, e
aggiungendo che si trattò di “una speranza infranta di lì a breve contro i
cingoli dei carri armati T-34 inviati da Mosca a sedare la rivolta”.
É significativo però che lei stessa
ammetta tra le righe che l'obiettivo per cui era nato il governo di Nagy,
“proclamato a furor di popolo primo ministro della Repubblica popolare di
Ungheria”, fosse quello di far uscire il paese dal campo socialista per farlo
entrare in quello dell'imperialismo: un programma che nel contesto dell'allora
“guerra fredda”, con la minaccia sempre incombente di una terza guerra mondiale
nucleare, non poteva avere nulla di “democratico” e di “riformista”, ma
rispondeva unicamente alla strategia imperialista di isolamento dell'URSS e di
spaccatura del campo socialista. Del resto anche Mauro, che nel suo articolo
aveva sostenuto la “buona fede comunista” dell'ex questore di Budapest, aveva
finito poi per rivelare che era stato proprio lui a far fuggire e rifugiare
nell'ambasciata americana il reazionario e fascista primate d'Ungheria, il
cardinale Mindszensty.
Anche la trotzkista Luciana Castellina,
che sullo stesso numero de Il Manifesto firma un articolo di
rievocazione dei suoi ricordi di quei giorni e delle fratture che produssero
nella FGCI e nel PCI, cerca di rivendere la controrivoluzione ungherese come
un'insurrezione popolare provocata dal dispotismo stalinista ancora presente
nei paesi dell'Est nonostante il recente XX Congresso del PCUS: “Io non
partecipai alla protesta, pur con tutte le riserve sui regimi dell’est e sui
giudizi minimizzanti che, pur senza censurare le informazioni, furono emessi
dal PCI. Non lo feci non per non rompere la disciplina (che poi ruppi per Praga
), ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscev sembrava
stesse cambiando; quanto accaduto a Budapest si presentava come un colpo di
coda della vecchia guardia stalinista (e in gran parte lo fu, stando alle
ricostruzioni degli stessi storici americani)”, conclude infatti la fondatrice
storica del quotidiano trotzkista. Che subito dopo aggiunge con sollievo: “Un
mese dopo il PCI operò una svolta decisiva con il suo VIII congresso”.
Sottinteso: con la compiuta assimilazione della svolta antistalinista e
riformista il PCI revisionista aveva superato anche le contraddizioni provocate
poco prima dalla sua presa di posizione a favore dell'intervento sovietico.
Da Budapest alla Bolognina
Anche Il Fatto Quotidiano del 24
ottobre si è unito al coro anticomunista, dedicando due pagine all'anniversario,
con un articolo di Fabrizio D'Esposito e un'intervista dello stesso all'ex
segretario del PCI revisionista e fondatore del PDS neoliberale, il rinnegato
Achille Occhetto, che all'epoca dei fatti d'Ungheria era un ventenne quadro
della FGCI. Occhetto si vanta di essere stato già allora quel borghese di
incallito animo liberale e riformista che avrebbe dimostrato di essere,
decidendo dopo il crollo del muro di Berlino di liquidare di sua propria mano
il PCI di cui era stato l'ultimo leader.
“La mia crisi di coscienza fu totale”, racconta Occhetto,
precisando però di non essere andato via dal PCI, pur identificandosi con le
posizioni di Nenni e dei socialisti (categoricamente schierati con la
controrivoluzione ungherese), ma di essere rimasto “in bilico”. Ma fa capire
bene come la pensava descrivendo un episodio capitatogli quando la federazione
di Milano fu assalita dai fascisti e lui era sulle gradinate rispondendo alle
sassate “fianco a fianco con gli stalinisti”. “Mi rivolsi a loro insultandoli:
se questi sassi arrivano è colpa vostra”, racconta Occhetto tutto orgoglioso
del suo precoce antistalinismo, aggiungendo compiaciuto che “successivamente i
dirigenti furono accusati per eccesso di stalinismo”.
Quindi anche il quotidiano di Marco
Travaglio, tramite l'intervista a Occhetto e l'articolo di presentazione di
D'Esposito, che parla dei “compagni polacchi antistalinisti” che ispirarono la
manifestazione studentesca di Budapest, e definisce Nagy “leader ungherese di
un socialismo riformabile e libero dall'abbraccio dell'Urss”, converge con Il
Manifesto trotzkista nel cercare di accreditare la tesi di un'“insurrezione
democratica” di ispirazione socialista e libertaria contrapposta ad un
anacronistico e oppressivo comunismo staliniano.
Tesi questa sposata in pieno e
teorizzata politicamente da Rifondazione trotzkista, che in un Ordine del
giorno della Direzione nazionale approvato con un voto contrario e
un'astensione, rende addirittura omaggio a “quei comunisti, come Imre Nagy e
Gyorgy Lukacs, che tentarono di sviluppare un progetto socialista diverso dal
modello che si era affermato durante il periodo staliniano”. Come cioè se la
controrivoluzione ungherese fosse stata un tentativo di “via nazionale al
socialismo”, stroncato, si dice per sottolineare il presunto paradosso, “dai
carri armati dei paesi socialisti” per “porre fine a un governo guidato da
comunisti”. Un tentativo – dice sempre il documento - che poco dopo, grazie
anche alla “tragedia ungherese”, si sarebbe affermato invece in Italia con l'VIII
Congresso del PCI, che “si caratterizzò per la sottolineatura del carattere
democratico della via italiana al socialismo e per l'archiviazione dell'idea di
uno Stato-guida e di un partito-guida del movimento comunista”.
Gli “eroi” de Il Giornale e lo
spettro del comunismo
Paradossalmente, per smascherare tutti
questi imbroglioni e dire pane al pane e vino al vino, e cioè che quella
ungherese fu una controrivoluzione anticomunista e antisovietica, ispirata e
foraggiata dall'imperialismo e condotta dalla borghesia e dalle altre classi
reazionarie spodestate per riprendere il potere, restaurare il capitalismo e
portare l'Ungheria nel campo della Nato, c'è voluto Il Giornale di
Sallusti, che alla celebrazione dei fatti del '56 ha dedicato un inserto di
diverse pagine, con un illuminante articolo in cui si esalta un gruppo di
pregiudicati per reati comuni usciti dalle carceri, che guidarono la rivolta
armata nelle strade di Budapest e che oggi sono celebrati come “eroi” dal
governo fascista di Orban: “Che cosa li animasse non è chiaro, forse una falsa
voce sull'imminente arrivo di paracadutisti inglesi”, spiega l'articolo,
gettando così in qualche modo luce su chi fossero in realtà gli insorti di
Budapest e a quali forze internazionali facessero riferimento.
“Le eroiche giornate di Budapest costituiscono ancora oggi
un monito: se è vero infatti che il comunismo storico è finito è anche vero che
l'utopia rivoluzionaria, come l'araba fenice, può sempre risorgere, sotto altre
spoglie, dalle sue ceneri”, avverte il quotidiano della destra berlusconiana,
che dopo le collane sul fascismo e sul nazismo, annuncia la pubblicazione di
una collana sul comunismo aperta dall'imminente uscita di un “Libro nero del
comunismo europeo”.
C'è da chiedersi perciò come mai,
nonostante il comunismo venga dato per morto e sepolto un giorno sì e l'altro
pure, la destra neofascista, la “sinistra” borghese e i trotzkisti non perdano
occasione, come in questo ghiotto caso del 60° della controrivoluzione
ungherese, per attaccarlo e denigrarlo e per demonizzare Stalin, tutti uniti in
un sol coro. Nel caso specifico, poi, la cosa appare ancor più disgustosa
perché fornisce anche un comodo alibi ad un governo fascista, razzista e
xenofobo come quello di Orban, che rivendica legittimamente l'eredità storica e
politica di quella controrivoluzione. I cui frutti non furono certo la
produzione ovunque di “esperienze di rifondazione e rilancio del carattere
democratico ed emancipativo del progetto socialista e comunista”, come blatera
la Direzione di Rifondazione trotzkista, ma piuttosto la restaurazione del
capitalismo e il risorgere del fascismo dalle macerie del revisionismo e dal
veleno dell'anticomunismo e dell'antistalinismo.
(Articolo de “Il Bolscevico”, organo del
PMLI n. 42/2016)
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